domenica 7 aprile 2013

Lo spettacolo della vita dentro il bicchiere


Che cosa è meglio, il vino o la birra? La migliore risposta la dà uno dei più grandi scrittori di un popolo che beve birra: Thomas Mann, tedesco di Lubecca. Nei «Buddenbrook» la sorella del protagonista si sposa con un uomo ricco ma volgare; quando il fratello la va a trovare, suo marito gli chiede se vuol bere qualcosa, «Grazie sì», «Birra o vino?», «Come volete», «No no, come volete voi», «Vino, grazie», «Ma non volete birra?», «Come volete», «No no, come volete voi». A questo punto l’ospite si secca: «Allora vino, grazie». La sorella diventa paonazza per la vergogna. La volgarità è non sapere che un uomo per bene, a un ospite per bene, offre vino e non birra. Mi piacerebbe sapere quale vino fu offerto all’erede dei «Buddenbrook». Oggi non mi stupirei se in una famiglia tedesca per bene si offrisse vino veronese: perché i tedeschi amano il Lago di Garda, «Unser Gardasee», scendono per un’autostrada che li porta dritti fin qui (e prosegue fino a Lignano, che è la loro spiaggia), e qui conoscono i ristoranti, e sanno distinguere i grandi vini. A Lignano Hemingway era di casa, ci aveva un capanno per la caccia. Tra tutti i vini veneti Hemingway prediligeva il Valpolicella. Lo definiva: «Cordiale come l’abbraccio di un amico». Quando moriva l’Unione Sovietica, son venuti a trovarmi tre scrittori russi, Breitburd, Ajtmatov e Bondarev. Li porto in un ristorante, e loro: «Come si chiama la vostra vodka?», «Grappa». Chiamano il cameriere e chiedono grappa. Il cameriere porta un bicchierino a testa. Tutti e tre tracannano il bicchierino in un sorso. Io no. Mi chiedono perché. «Noi beviamo prima vino, per fare amicizia, e alla fine grappa». Il più autorevole, Breitburd (ma il più grande era Ajtmatov) si alza in piedi, china la testa e fa: «Potrai mai perdonarci di non avere rispettato la vostra usanza del vino?». Avevano il complesso di venire dal Paese del proletariato, temevano di non conoscere l’etichetta borghese, specialmente in tema di bere. Sollevavano il bicchiere di vino per il gambo, attenti a non toccare il calice. Come se celebrassero una messa. Il vino è un pacificatore. All’università, discutendo tesi di laurea, succedeva che verso le 11 tutti eravamo sfiniti. Si usciva un attimo e si andava al bar. A bere la bevanda che qui tutti bevono: lo spritz, un miscuglio di vino, seltz e Bitter Campari. Dopo di che le discussioni filavano più lisce, e i voti erano più alti. Alla Maturità, stessa cosa: se la commissione litigava e alzava i toni, il preside portava in tavola tre bottiglie di Prosecco. Tutto scorreva come l’olio. Al Premio Viareggio, quando in giuria ci sentiva litigare, perché non saltava fuori il vincitore, il patron dell’Albergo Principe di Piemonte portava tartine e Verdicchio fresco: in dieci minuti trovavamo il libro da premiare. A Stoccolma ho parlato di Primo Levi all’Istituto italiano di cultura, e c’era tutta l’intellighenzia della città. Anche votanti del Nobel. Il direttore m’ha spiegato: «Quando presentiamo un autore qui, si fiondano tutti, perché sanno che trovano il vino italiano». Non è che il vino italiano non si trovi in giro per Stoccolma, nei negozi e nei ristoranti, ma costa carissimo, perché è gravato da una pesante tassa d’importazione, il cui ricavato va alla Casa Reale. E così, qualcuno s’è diplomato grazie al vino. Qualcuno s’è laureato. Qualcuno ha vinto il Premio Viareggio. E forse qualcuno ha vinto pure il Nobel. 
Fonte: la Stampa

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