giovedì 28 febbraio 2013

Scenari politici


Tutte le ipotesi sulla situazione politica - anche quelle più ardite - spiegate con calma: con Grillo, senza Grillo o con un po' di Grillo soltanto

27 febbraio 2013

Dalle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio è venuto fuori un Parlamento senza una chiara maggioranza politica, e questo – oltre ad alimentare comprensibili preoccupazioni sul futuro dell’Italia nel breve e medio periodo – comporta una serie infinita di passaggi incerti e giuridicamente quasi inediti e sta generando discussioni tra addetti della politica, giornalisti e italiani in genere. Vediamo di capire per bene.

1. Chi ha la maggioranza in Parlamento?
Questa è facile: nessuno. Il centrosinistra – coalizione che ha ottenuto il premio previsto dalla legge elettorale – ha la maggioranza assoluta alla Camera ma il suo stesso leader, Pier Luigi Bersani, ha detto che «non ha vinto». Questo perché al Senato il PD e il centrosinistra hanno solo la maggioranza relativa, pur essendo primo partito e prima coalizione. Nemmeno alleandosi eventualmente con i montiani, ipotesi di cui si è discusso a lungo in campagna elettorale, si arriverebbe a una maggioranza assoluta in Senato.

2. Ok, quindi chi ha la maggioranza in Parlamento?
Fatti un paio di conti, ci sono solo due alleanze che possono ottenere una maggioranza assoluta alla Camera e al Senato: una formata tra PD e PdL (e, volendo, i montiani), una formata da PD e M5S. Ma parliamo di maggioranze numeriche: politicamente è tutto da vedere.

3. È necessaria la maggioranza per governare?
In teoria no: un governo appoggiato dal solo centrosinistra, o dal centrosinistra più i montiani non avrebbe la maggioranza dei voti del parlamento, ma potrebbe contare sull’astensione o sull’”appoggio esterno” di gruppi che non ne facciano parte.

4. Cosa succede adesso?
Il nuovo Parlamento è stato convocato per il 15 marzo. La nuova Camera e il nuovo Senato per prima cosa eleggeranno i loro presidenti e vicepresidenti, operazione che salvo grandi intoppi non dovrebbe richiedere più di pochi giorni. Diciamo che, prendendola larga, per il 25 marzo abbiamo fatto.

Poi spetta al presidente Napolitano convocare il vincitore delle elezioni – Bersani, per quanto azzoppato, come leader della coalizione che ha più seggi – e assegnargli l’incarico di verificare se ci sono le condizioni per formare un governo. Bersani con ogni probabilità accetterà con riserva, farà le sue consultazioni e le sue valutazioni, e poi tornerà da Napolitano per comunicargli se scioglie o no la riserva: se pensa o no di avere il voto della maggioranza del Parlamento. Torniamo alle maggioranze possibili: che sia o no Bersani a guidare questo eventuale governo, questo dovrà avere comunque il sostegno o del PD e del PdL, o del PD e del M5S.

5. Ma il M5S può non votare la fiducia e scegliere di votare le leggi caso per caso, come dice di voler fare?
Può non votare la fiducia ma ci si deve arrivare, al voto sulla fiducia. La Costituzione, infatti, stabilisce all’articolo 94 che il governo debba avere la fiducia delle camere: ovvero il voto favorevole della metà più uno. Non vale astenersi: al Senato l’astensione vale come voto contrario, i Sì devono essere di più. Non è obbligatorio, per quanto frutto di una sensata consuetudine, che il governo ottenga questo voto immediatamente dopo il giuramento: ma deve ottenerlo entro i primi 10 giorni. E il voto di fiducia è un voto di significato politico generale. Beppe Grillo ha annunciato che il M5S non voterebbe la fiducia a un governo Bersani, e se il suo movimento lo segue non ci sarà quindi una maggioranza di governo PD-M5S. Resterebbero le ipotesi di una maggioranza PD-PdL e quella di un governo di minoranza del centrosinistra.

6. I senatori del M5S non potrebbero uscire dall’aula durante il voto di fiducia, così da permettere a un governo Bersani di minoranza di insediarsi ma senza votarlo né sfiduciarlo?
Teoricamente sì. Il fatto che abbiano voglia di farlo andrebbe indagato con più attenzione: si tratta di supporre che i membri del M5S, con la loro attenzione per la trasparenza e la responsabilità, fingano di essere assenti uscendo strategicamente dall’aula ogni volta che si debba votare la fiducia al governo Bersani, per tenerlo in piedi. Prospettiva che li contraddirebbe, forse. Ma anche se fosse, potrebbe non bastare.

Perché una votazione al Senato sia valida, infatti, deve comunque rimanere in aula la metà più uno dei senatori (esclusi quelli in congedo o assenti per incarichi avuti dal Senato), altrimenti manca il numero legale e la seduta deve essere rimandata. Se il Movimento 5 Stelle decidesse di uscire dall’aula per dare modo a un governo di minoranza Bersani di ottenere la fiducia, di fatto tutto finirebbe in mano ai senatori del PdL e della Lega: se uscissero anche loro non ci sarebbe il numero legale e non ci sarebbe la fiducia. Potrebbero farlo, ma il biennio 2006-2008 insegna a diffidare sulle speranze di sopravvivenza di un governo con fondamenta così fragili.

Quindi non ci si può girare intorno: serve che al Senato ci sia una maggioranza che voti la fiducia a un governo, prima di fare discussioni “tema per tema”. Se entrambe le camere votano la fiducia a un governo, questo si insedia e poi comincia a fare il governo.

7. E non si possono proporre leggi e votarle in Parlamento, tema per tema, senza un governo?
Si può proporle, anche al primo giorno di insediamento: è il Parlamento che propone le leggi e le approva, e il governo ha solo alcuni strumenti legislativi secondari. E fino all’insediamento di un nuovo governo, il governo Monti resta in carica, dimissionario, “per il disbrigo degli affari correnti”. Ma la produzione legislativa del Parlamento prevede la presenza del governo in una serie di passaggi (calendario con i capigruppo, lavori delle commissioni, discussione in aula) con un ruolo attivo che non è negli “affari correnti” di un governo dimissionario.

Aggiungete che è abbastanza impensabile che in una condizione di ingovernabilità, senza che esista nessuna maggioranza plausibile per formare un nuovo governo, le camere siano mantenute nella loro operatività. Il nuovo presidente della Repubblica – quello attuale non può, perché è a fine mandato (ci arriviamo) – le scioglierebbe prima che siano in grado di affrontare qualunque percorso legislativo.

8. Cosa resta?
Oppure si ritorna allo scenario che lo stesso Grillo ha definito più probabile – e a quanto sembra da lui auspicato per aggiungere discredito ai partiti avversari – un “governo Monti senza Monti”. Cioè un’alleanza tra PD e PdL – e forse anche i montiani – simile a quella che ha governato il paese nell’ultimo anno, magari con l’obiettivo di fare alcune riforme prima di tornare a votare. Il PdL però ha detto che sosterrà un governo a condizione che intenda abolire l’IMU e restituire quella già pagata sulla prima casa, e Bersani per il momento ha escluso di fare un’alleanza col PdL. E lo scenario è tra l’altro considerato come quello che più degli altri gonfierebbe ulteriormente i consensi del M5S.

9. Quindi non c’è un’ipotesi di governo realistica?
Tutto può cambiare, ma allo stato attuale pare di no. In questi casi, quando ritiene che le possibilità di formare una maggioranza si siano esaurite, il presidente della Repubblica scioglie le camere e si va a nuove elezioni. C’è un ma, però.

10. Cioè?
Giorgio Napolitano si trova nel cosiddetto “semestre bianco”, cioè gli ultimi sei mesi del suo mandato, quelli in cui non può sciogliere le camere (salvo che quei sei mesi non si sovrappongano con la scadenza della legislatura). La ragione di questa norma è impedire che il presidente della Repubblica decida arbitrariamente di sciogliere le camere per rinviare l’elezione del suo successore o sbarazzarsi di un Parlamento sfavorevole a una sua ipotetica rielezione.

11. Quindi restiamo senza governo? E fino a quando?
Non restiamo senza governo perché fino all’insediamento del nuovo governo resta in carica il precedente, il governo Monti. Il mandato di Napolitano scade il 15 maggio 2013: la prima convocazione del Parlamento e dei delegati regionali allo scopo di eleggere il suo successore è stata fissata il 15 aprile. Quindi, stando così le cose, bisognerebbe aspettare l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, che potrebbe impiegare un solo giorno o anche diversi. Il nuovo presidente della Repubblica, una volta insediato, deciderebbe se avviare delle nuove consultazioni o sciogliere le camere.

12. Non si potrebbe far prima?
Sì, si potrebbe. Ci sono due possibilità. La prima è che Napolitano, valutata la necessità di sciogliere le camere e l’inopportunità di stare a lungo senza un governo legittimato dal Parlamento, decida di dare le dimissioni finite le consultazioni: più o meno due mesi prima della scadenza naturale del suo mandato. Così il suo successore sarebbe eletto prima del 15 aprile e si andrebbe a votare prima.

La seconda possibilità è un po’ fantascientifica (ma la situazione in cui siamo è piuttosto inedita): l’autoscioglimento delle camere, a fronte di una situazione di stallo. Se ne parla nei manuali di dottrina giuridica – e non nella Costituzione – specie in relazione al fatto che di norma, soprattutto nella prima repubblica, erano i partiti (cioè le camere) a decidere di andare a nuove elezioni, e al presidente della Repubblica non restava che certificare quella volontà.

13. Già che siamo nella fantascienza, altre idee?
Una ci sarebbe, piuttosto estrema. Allo scopo di rimuovere questo ingorgo ed evitare che il nuovo presidente della Repubblica sia eletto da un Parlamento così temporaneo, vissuto appena poche settimane, un’altra ipotesi possibile è la rielezione di Giorgio Napolitano dietro suo impegno a dimettersi entro un anno. Nel frattempo si torna a votare, si spera di ottenerne una maggioranza parlamentare, si insedia un governo (se stavolta va meglio) e si sceglie con calma il nuovo capo dello Stato.
Fonte www.il post.it

mercoledì 27 febbraio 2013

I voti dopo il voto




di Daniele Di Giovanni

PAGELLE DEL DOPO-ELEZIONI
VOTO 10 AL M5S: Per anni ci hanno raccontato che per fare politica servono soldi, tanti soldi, e potere mediatico, tanto potere mediatico, “per quello vince Berlusconi” si diceva; ebbene, un manipolo di “eroi moderni” ha messo in piedi un movimento straordinario, partendo da zero, contando sulle sole capacità dei singoli e sulle provocazioni di un comico “portavoce”, sicuramente più bravo e “comico” di tanti buffoni di stanza a Montecitorio; a proposito, piccola nota a margine: se le vecchie, sane, intelligenti prassi istituzionali hanno ancora senso, per la presidenza della Camera si dovrebbe guardare al web-partito che ha, di fatto, vinto la contesa delle liste. I paragoni con la Lega “delle origini” non reggono, nei numeri, nelle modalità, nell’omogeneità nazionale del dato; se proprio devo azzardare un paragone, comunque inopportuno, mi viene in mente il “Fronte dell’Uomo Qualunque” post- bellico, e, per l’entusiasmo giovanile, l’esperienza della “Guardia di Ferro” di Codreanu in Romania. Nell’ipotesi che aiuti il PD a far nascere un governo “semestrale”(astensione alla Camera, fiducia “condizionata” al Senato) che faccia la riforma elettorale, abolisca la riforma Fornero,faccia una seria legge sul conflitto d’interessi e restituisca a settembre la parola ai cittadini, porrebbe raggiungere percentuali di consenso prossime alla misura giropetto di Nicole Minetti.

VOTO 9 A BERLUSCONI: c’era, e se la ricorda bene,alla finale di Coppa tra Milan e Liverpool, quella giocata tra i miracoli inglesi e le lacrime meneghine; Testa d’asfalto ha fatto qualcosa di simile, compiendo un’impresa senza precedenti: fino a dicembre ha guardato la partita dalle tribune e quando si è reso conto che la gara era compromessa, ha pensato bene di buttare i fumogeni(di marca “rimborso imu”) in campo (stadio “Senato della Repubblica”) e di costringere l’arbitro a sospendere la partita per impraticabilità di campo. Purtroppo per Bersani non è previsto lo 0-3 a tavolino, ma la semplice ripetizione del match:poi c’è l’arbitro Grillo che intriga e preoccupa…

VOTO 8 AL 99,55% DEGLI ITALIANI CHE NON HANNO VOTATO FINI: La seconda più grande soddisfazione di queste urne è sapere che il primo a dover abbandonare la Camera con il passamontagna in mano e le braccia in alto è proprio il suo Presidente, autore di uno dei più grandi disastri politici del dopoguerra, capace di cancellare la destra italiana, arrivata alle stelle durantei fasti di tangentopoli; il delfino di Almirante è diventato “tonno” e dopo la stagione delle ammucchiate “della libertà”, paga il suo onanismo neocentrista. Riferite urla e canti nei pressi della tomba di Rauti: niente di preoccupante, ma il buon Pino non aspettava altro. Gianfranco passa dal saluto romano al saluto (commiato) a Roma.

VOTO 7 A RENZI ed alle sue risate toscanacce che si sono udite fino al Profondo Sud… Il Renzaccio avrebbe sicuramente catalizzato buona parte del voto giovanile finito al Cinquestelle, ma quando ha provato a fare pulizia e rinnovamento, la casta del pd ha fatto la sintesi tra le sue molteplici anime, ha serrato i ranghi, stretto i denti ed ha assicurato la sopravvivenza della geronto-specie rifugiando nelle pantofole calde e comode di Bersani.

VOTO 6 ALLA LOCATION DELLA FESTA DEI TROMBATI, e/o comunque all’organizzazione dell’evento che non ci ha nemmeno mandato l’invito su facebook…ma se sulla location vige il massimo riserbo, sui “convitati di pietra” la lista appare ben chiara: Delfini missini, giudici assassini del congiuntivo, massoni che scambiano un corso di inglese per un master, montini-montoni, e chi ha avuto almeno la decenza di non iscriversi alla contesa elettorale in un inaspettato, ma entusiasmante, moto di autocritica.

VOTO 5 AL PROFESSOR MONTI: ambiva a formare il Grande Centro, invece viene più che doppiato da Grillo; paga, nell’ordine: 1) il rigore(e le punizioni e le ammonizioni), le lacrime ed il sangue; 2) la scesa in campo in prima persona; 3)l’alleanza con sgli scavi archeologici Casini e Fini; 4) il fatto che dalla Bignardi non si è capito se il candidato fosse lui o il cane; 5) il fatto che da Vespa sedeva a destra. Il suo “proggggetto” politico è filato via anonimo come un peto all’aria aperta in favor di vento.

VOTO 4 A RIVOLUZIONE CIVILE: Purtroppo verdi e rossissimi (quelli che angosciano i sogni di Truffolo, non quelli "allineati" di Nichi) rimangono ancora una volta fuori dal parlamento; sarà un caso (ed il loro contributo in passato è stato marginale) ma da quando la sinistra che fa la sinistra è fuori dalle istituzioni, lo stato sociale, la solidarietà, i temi del lavoro ed etici, della scuola, dell’ambiente sono completamente fuori dall’agenda politica del Paese; sbagliano la sintesi, sbagliano la “fusione fredda”, sbagliano a tirare fuori un simbolo nuovo a cinque settimane dalle elezioni; purtroppo l’immenso Diliberto non renderà indigesta, con la sua semplice presenza a Montecitorio, la quotidiana colazione romana di Truffolo.

VOTO 3 AD INGROIA: L’imitazione di Crozza, che dovrebbe essere satirica, caricaturale, esagerata, risulta invece più che calzante: appare svogliato, pronuncia mezze frasi tra i denti, se la prende con Bersani (che ha già i suoi bei problemi post-urne), sembra quasi che abbia voluto fare un favore a IDV-VERDI-PRC-PDCI mettendoci la faccia al loroposto ; ha pesantemente disatteso tutti i buoni pronostici della vigilia: nemmeno il progetto “ROSA NEL PUGNO” (SDI+ RADICALI+ MAL DI PANCIA DI CAPEZZONE) era risultato così abulico, anonimo, inopportuno nel panorama politico dell’ultimo decennio. Alla fine, in Sicilia, la mafia - che gli dà il lavoro - ha optato per il voto utile scegliendo compatta l’amore di sempre: Il Pdl.

VOTO 2 A BERSANI: Grillo sostiene che nel periodo aureo berlusconiano (legislatura 2001-2006) alla sinistra sarebbe bastato tacere per vincere le elezioni; ora che c’era da parlare, da ricordare chi governava questo Paese di Bengodi fino a novembre 2011, bene hanno pensato, Bersani ed i suoi, di trascorrere il mese di campagna elettorale a scegliere davanti allo specchio la cravatta da indossare sul doppio petto Pignatelli quando sarebbero andati a firmare e giurare da ministri e sottosegretari; ma Truffolo, il Luciano Moggi della politica italiana(che non distribuisce schede svizzere ma accordi economici farlocchi con gli Elvetici), gli ha tristemente ricordato che “ partita è finita quando arbitro fischia”; solidarietà umana al povero Crozza di cui sopra, per la difficoltà che troverà nel dover fare oggetto di satira chi ha già fatto ridere di suo a crepapelle.

VOTO 1 A CHI CONTINUA A FARE SONDAGGI TELEFONICI, ignorando che nelle migliaia di case dove in 80 mq convivono 15 studenti universitari e 5 lavoratori fuori sede, ci sono 20 voti di Grillo, 26 smartphone, 12 iPad e ZERO TELEFONI FISSI.

VOTO 0 ALL’ISTITUTO PIEPOLI, a cui la Rai aveva affidato sondaggi, instant poll e analisi-proiezioni delle più "strategiche" elezioni del dopo '48, e che ha fallito clamorosamente, più degli altri istituti, e l’unico numero che ha indovinato è stato il totale di deputati da eleggere (stabilito peraltro costituzionalmente). Se la matematica non è un’opinione, per Piepoli la statistica è un’aberrazione.
Fonte : Facebook

martedì 26 febbraio 2013

Il reddito minimo nei paesi europei



Comparando i diversi modelli di Welfare State vigenti negli stati membri dell’Unione Europea, balza subito agli occhi che l’Italia è l’unico Paese (assieme alla Grecia) a non aver introdotto un Reddito Minimo Garantito. Lo chiamano modello Mediterraneo


L’inadeguatezza del welfare italiano è un dato di fatto difficilmente contestabile. Nel giro di poco tempo, senza alcuna gradualità, nel nostro paese si è passati dall’assistenzialismo più spinto alla sostanziale latitanza di uno stato sociale.
A questo, è il caso di dirlo, contribuisce una mentalità totalmente aliena rispetto a quella vigente negli altri paesi dell’Unione Europea. La maggior parte delle scarse risorse che il nostro Stato ha a disposizione per tutelare le fasce deboli della popolazione, infatti, viene impegnata per ammortizzatori sociali che oltre ad essere poco efficaci, non sono per nulla in linea con il sistema delineato in ambito U.E..
Il nostro paese, ad esempio, nonostante il Parlamento Europeo con la raccomandazione 92/441CEE, sulla falsa riga di quanto previsto nell’ambito del sistema americano, abbia chiesto l’introduzione del c.d. reddito di cittadinanza che garantisse ad ogni cittadino la soddisfazione dei bisogni primari aldilà del suo status lavorativo, ancora oggi non ha legiferato sull’argomento.
Questo “appello” del Parlamento Europeo, pur essendo stato lanciato con uno strumento “legislativo” non vincolante come la Raccomandazione, col tempo, è stato accolto dalla quasi totalità degli Stati Europei.
Ad esempio In Belgio, questo strumento di welfare è chiamato minimax, ed è un diritto individuale che garantisce un reddito minimo di circa 650 euro a chi non dispone di risorse sufficienti per vivere. Ne può usufruire chiunque, anche chi ha appena smesso di ricevere il sussidio di disoccupazione. In Lussemburgo, c’è il revenue minimum guaranti, che è definito legge universale, ed è un riconoscimento individuale erogato “fino al raggiungimento di una migliore condizione personale”. L’importo è di 1.100 euro mensili. In Austria c’è la sozialhilfe, un minimo garantito che viene aggiunto al sostegno per il cibo, il riscaldamento, l’elettricità e l’affitto per la casa. In Norvegia c’è lo Stønad til livsopphold, letteralmente “reddito di esistenza”, erogato a titolo individuale senza condizione di età, con un importo mensile di oltre 500 euro e la copertura delle spese d’alloggio ed elettricità. In Olanda si chiama Beinstand, è un diritto individuale e si accompagna al sostegno all’affitto, ai trasporti per gli studenti, all’accesso alla cultura. Sempre in Olanda c’è il Wik, un reddito di 500 euro destinato agli artisti per “permettergli di avere tempo di fare arte”.
Insomma, anche senza una ricognizione completa dei sistemi di welfare di ogni Stato Membro, l’assenza di un tale strumento sociale in Italia, evidenzia oltremodo la lontananza del nostro Paese da quell’Europa che ha affrontato il tema della protezione sociale e del reddito garantito fin dall’inizio degli anni ’90.
Di fatto, in ambito Comunitario, vigono di 3 diversi modelli di reddito minimo: 1) quello centro europeo, che vede paesi come Belgio e Olanda attuare queste forme già dagli anni settanta del novecento; 2) il modello anglosassone, che ha nella sua specificità le ristrettezze dettate dal means test, che alcuni definiscono forma di controllo vero e proprio sugli individui percettori; 3) quello scandinavo che prevede un ampio ventaglio di interventi sociali tra i quali il sostegno al reddito è uno dei capisaldi.
Infine, vi è un quarto modello, quello mediterraneo, che vede l‘Italia e la Grecia come gli unici due paesi europei a non avere alcuna forma di reddito minimo. Anche in Spagna, grazie al governo Zapatero, è stato avviato un dibattito nazionale che sta portando, pur con una certa lentezza, all’istituzione di una forma di reddito sociale.
Per non apparire “italiani felloni”, però, va detto che queste forme di protezione sociale sono perfettibili e che celano al proprio interno alcune contraddizioni. Ad esempio, il fatto che molti di questi modelli di welfare si siano trasformati in workfare, in cui esiste l’obbligo per i beneficiari ad accettare qualsiasi lavoro pena la sospensione del benefit, porta con se alcune conseguenze come quella di nutrire una grossa fascia di lavori a bassa qualificazione. In questo senso, ad esempio in Belgio, si sono definite delle forme di congruità, in cui un beneficiario del reddito minimo può rifiutare il lavoro offerto se non è congruo al suo inquadramento professionale precedente o alla sua formazione; una sorta di riconoscimento delle competenze acquisite che frena il ribasso professionale e salariale. Così come il means test di stampo britannico, rischia di essere, secondo alcuni commentatori, più una forma di controllo che di assistenza sociale. Bisogna però dire che il sostegno al reddito, le forme di protezione sociale, permettono tempi di vita sicuramente diversi e permettono ai cittadini di affrontare la propria quotidianità in modo sicuramente meno pressante e vessatorio, evitando, o quanto meno alleviando lo stato di frustrazione mentale che oggi attanaglia il disoccupato italiano.
Il tema del reddito garantito, minimo, di base, di cittadinanza è centrale nelle discussioni giuridico – politiche di quasi tutto lo scacchiere internazionale. Si pensi che anche in realtà in via di sviluppo come la Bolivia, questo istituto è diventato il punto cardine dell’intero sistema nazionale di Welfare.
In Italia, invece, Il dibattito intorno a questa tematica è, da sempre, abbastanza sterile; infatti, la storia parla di iniziative di legge popolare mai andate a buon fine e di un totale disinteresse per l’argomento da parte del Parlamento, sempre pronto ad accettare ogni diktat europeo in campo finanziario ma distratto, o volutamente inerte, nei confronti di una raccomandazione del Parlamento Europeo, come la citata 92/441 CEE, che caldeggia l’introduzione di quel reddito minimo che dovrebbe fare da volano per una riforma sostanziale di un sistema di Welfare che, come quello italiano, è fermo al ‘900 e, pertanto, inadeguato al periodo storico vigente.
Ad oggi, l’unica regione italiana (parzialmente) virtuosa in materia è il Lazio, dove è stato istituito un sussidio di circa 600 € mensili per chi, tra i 30 e i 44 anni, abbia un reddito annuo inferiore agli 8000 €.
Fortunatamente però, pare che anche la Sicilia possa a breve entrare nell’Europa del Welfare State; infatti, l’ARS, assemblea legislativa siciliana, è prossima alla discussione in merito all’istituzione di uno strumento denominato “reddito minimo di dignità”, che, date le ristrettezze delle casse dell’erario isolano dovrebbe avere un’entità economica compresa tra i 400 € e i 600 €; esso, pur inferiore a quello vigente in altre realtà europee, rappresenterebbe una vera e propria manna all’interno di un territorio martoriato da una situazione lavorativa che, già storicamente difficile, si è ulteriormente aggravata negli ultimi anni.
Il tema del reddito garantito, dunque, dovrebbe essere centrale all’interno di un paese democraticamente maturo come l’Italia; in cui, prendendo ad esempio le più virtuose esperienze comunitarie può essere rilanciato e riformulato come azione di contrasto alla precarietà, come modalità per evitare i contratti sottopagati, per porre un freno all’emergenza economica e al disagio di milioni di persone sottoposte al c.d. ricatto occupazionale. Si tratterebbe di un piccolo aiuto alle famiglie dei working poor che non riescono ad arrivare a fine mese. Sotto questo punto di vista le forme di reddito di base vigenti in molti paesi europei, che pure non vanno lette come la panacea per tutti i nostri mali, viste da quaggiù sembrano il bengodi del welfare.
C’è dunque assoluto bisogno di concretezza, non solo per rispondere alla continua evoluzione della nostra contemporaneità, ma anche perché l’erogazione di un reddito garantito in Italia, potrebbe farci sentire un po’ meno abitanti della periferia e un po’ più cittadini europei.


Pubblicato da Francesco Sabatelli il 12 febbraio 2013  in Welfare

Quos Deus vult perdere, dementat prius.


di Marco Travaglio, da Il Fatto quotidiano, 26 febbraio 2013

La domanda era: riusciranno i nostri eroi a non vincere le elezioni nemmeno contro un Caimano fallito e bollito? La risposta è arrivata ieri: ce l’han fatta un’altra volta. Come diceva Nanni Moretti 11 anni fa, prima di smettere di dirlo e di illudersi del contrario, “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Del resto, a rivedere la storia del ventennio orribile, era impossibile che gli amici del giaguaro smacchiassero il giaguaro.

L’abbiamo scritto fino alla noia: nel novembre 2011, quando B. si dimise fra le urla e gli sputi della gente dopo quattro anni di disastri, era dato al 7%: bastava votare subito, con la memoria fresca del suo fallimento, e gli elettori l’avrebbero spianato, asfaltato, polverizzato. Invece un’astuta manovra di palazzo coordinata dai geniali Napolitano, Bersani, Casini e Fini, pensò bene di regalarci il governo tecnico e soprattutto di regalare a B. 16 mesi preziosi per far dimenticare il disastro in cui ci aveva cacciati.

Il risultato è quello uscito ieri dalle urne. Che non è la rimonta di B: è la retromarcia del centrosinistra. Che pretende di aver vinto con meno voti di quando aveva perso nel 2008. Il Pdl intanto ha incenerito metà dei voti di cinque anni fa, la Lega idem. E meno male che c’era Grillo a intercettarli, altrimenti oggi il Caimano salirebbe per la quarta volta al Quirinale per formare il nuovo governo. Il che la dice lunga sulla demenza di chi colloca M 5 S all’estrema destra o lo paragona ad Alba Dorata.

Il centrodestra è al minimo storico, sotto il 30%, che però è il massimo del suo minimo: perché B. s’è alleato con tutto l’alleabile, mentre gli strateghi del Pd con la puzza sotto il naso han buttato fuori Di Pietro e quel che restava di Verdi, Pdci, Prc e hanno schifato Ingroia: altrimenti oggi avrebbero almeno 2 punti e diversi parlamentari in più, forse addirittura la maggioranza al Senato. Ma credevano di avere già vinto, con lo “squadrone” annunciato da Bersani dopo le primarie: l’ennesima occasione mancata (oggi, col pur discutibile Renzi, sarebbe tutta un’altra storia).

Erano troppo occupati a spartirsi le poltrone della nuova gioiosa macchina da guerra per avere il tempo di fare campagna elettorale. I voti dovevano arrivare da sé, per grazia ricevuta e diritto divino, perché loro sono i migliori e con gli elettori non parlano. Qualcuno ricorda una sola proposta chiara e comprensibile di Bersani? Tutti hanno bene impresse quelle magari sgangherate di Grillo e quelle farlocche di B. (soprattutto la restituzione dell’Imu, tutt’altro che impossibile, anche se pagliaccesca visto che B. l’Imu l’aveva votata). Di Bersani nessuno ricorda nulla, a parte che voleva smacchiare il giaguaro.

Anche questo l’abbiamo scritto e riscritto: nulla di particolarmente brillante, tant’è che ci era arrivato persino D’Alema. Ma non c’è stato verso: la campagna elettorale del Pd non è mai cominciata, a parte i gargarismi sulle alleanze con SuperMario (da ieri MiniMario) e i formidabili “moderati” di Casini (tre o quattro in tutto). Col risultato di uccidere Vendola, mangiarsi l’enorme vantaggio conquistato con le primarie e regalare altri voti a Grillo, non bastando l’emorragia degli ultimi anni.

Ora è ridicolo prendersela col Porcellum (peraltro gelosamente conservato): chi, dopo 5 anni di bancarotta berlusconiana, non riesce a convincere più di un terzo degli elettori non può pretendere di governare contro gli altri due terzi. Anzi, dovrebbe dimettersi seduta stante per manifesta incapacità, ponendo fine al lungo fallimento di un’intera generazione: quella degli ex comunisti che non ne hanno mai azzeccata una. Ma dalle reazioni fischiettanti di ieri sera non pare questa l’intenzione: tutti resteranno al loro posto e, lungi dallo smacchiare il giaguaro, proveranno ad allearsi col giaguaro in una bella ammucchiata per smacchiare il Grillo e soprattutto evitare altre elezioni. Auguri. Quos Deus vult perdere, dementat prius.

(26 febbraio 2013)

Riflessione sul voto


I risultati di oggi portano ad alcune riflessioni ma non sono necessariamente nefasti. Il successo straordinario del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo è solo l’ultimo e il più forte grido di protesta contro un sistema partitico malato che si trascina avanti da moltissimo tempo. Il fenomeno della Lega lombarda nei primi anni ’90, le picconate di Francesco Cossiga contro la cosiddetta partitocrazia, e poi l’esplosione di tangentopoli nel ‘92 furono già ammonimenti molto chiari di una forte voglia di cambiamento. I partiti tradizionali sono stati lenti e spesso sordi nel voler cogliere il pieno significato di questo malessere molto diffuso, e il successo del movimento di Grillo è la dimostrazione chiara che questo problema non può più essere rimandato.

D’altra parte sorprende la relativa tenuta di Berlusconi, che, pur perdendo diversi punti rispetto al 2008, ha evitato il crollo previsto ed è riuscito ad ottenere un risultato che sembrava quasi inimmaginabile alcune settimane fa. Questo voto va però nel senso assolutamente contrario del voto per il M5S ed è numericamente un voto più grande. Il berlusconismo ha rappresentato la difesa degli elementi peggiori del vecchio sistema partitico. La legge elettorale con cui si è votato, e che Berlusconi ha rifiutato di modificare, è una legge che toglie la possibilità ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti e mette i segretari e i capi dei partiti in posizione decisiva per decidere chi va al potere, quindi è un facile strumento di clientela che conosciamo fin troppo bene. Per di più, Berlusconi ha difeso un sistema di conflitto di interessi di scala nazionale che è uno dei punti chiave del programma di Grillo. Grillo ha anche proposto il divieto ai candidati condannati in primo grado, che metterebbe fuori gioco una bella fetta dei candidati di centrodestra, compreso il loro capolista Berlusconi stesso.

L’insuccesso della coalizione di Mario Monti sorprende assai meno, seppur forse un po’ ingiusto. A Monti è toccato il compito ingrato di mettere in sesto i conti dello Stato in un momento di crisi economica mondiale, senza un appoggio politico proprio. E’ stato quindi come un medico che ha dovuto somministrare medicine amare, e in una situazione economica di prolungata crisi si capisce facilmente perché la gente non voglia prenderne di più. Uno dei chiari messaggi è che la politica europea dell’austerità ha finora peggiorato la qualità di vita della maggioranza dei cittadini, ed è giusto che la politica discuta delle possibilità per dare prospettive migliori per i cittadini normali, sia lavoratori che disoccupati, e non solo gli interessi dei mercati finanziari e delle banche, eccetera.

Per il Partito Democratico di Pier Luigi Bersani è una vittoria sobria: alcuni possono parlare di sconfitta, e sicuramente i dirigenti di quel partito speravano in un margine di vittoria migliore e in uno spazio di manovra maggiore. Detto ciò, la coalizione di centrosinistra sembra emergere comunque come la prima del Paese, e Pd e Sel sono i partiti a cui il maggior numero di italiani ha dato il compito di interpretare e gestire in termini concerti quello che dovrebbe uscire da questo risultato contraddittorio e complesso.

Nella migliore delle ipotesi il successo del Movimento 5 Stelle e il bisogno di trattare con loro per formare il governo di cui il paese ha bisogno potrebbe indurre i leader del Pd a riflettere seriamente su alcune forme più radicali e di uscire un po’ dall’atteggiamento, comprensibile per chi sta dentro la macchina governativa da molto tempo, di semplicemente gestire un pò meglio l’esistente, e di pensare un po’ in termini ambiziosi. Mettersi d’accordo con il movimento di Grillo su alcuni punti per ridurre il costo della politica, ridurre seriamente il numero di deputati e senatori, i livelli duplicati di governo, una legge seria sul conflitto di interessi, un piano economico che privilegia di più la crescita rispetto all’austerità, sono tutti temi su cui potenzialmente si più trovare un terreno comune. D’altra parte è un momento di prova anche per il movimento di Grillo, di dimostrare capacita ancora non viste di dialettica e di compromesso con persone che fino all’altro ieri erano considerate zombie e vampiri. Ci sono elementi nella retorica di Grillo e di altri del suo movimento che sono chiaramente impraticabili. Per esempio, Grillo ha parlato della possibilità di non pagare il debito pubblico o di pagarne solo parte, ma bisogna anche fare i conti con il fatto che moltissime delle persone che possiedono titoli di stato sono semplici risparmiatori italiani, quindi si tratterebbe solo di togliere soldi da una tasca per metterli in un’altra, alle stesse persone. L’idea di pagare mille euro al mese a tutti i disoccupati quando la competitività dell’economia italiana è in calo da vent’anni è un idea con poco futuro, per cui auspichiamo che queste due forze politiche, che insieme costituiscono oltre 50% degli elettori italiani, e potenzialmente con il movimento di Monti oltre il 60%, si mettano a lavorare seriamente per fare tre o quattro cose importanti per il popolo italiano che li ha votati, e agiscano con grande senso di responsabilità. Solo allora qualcosa di buono potrebbe uscire fuori da queste elezioni storiche.

Come il Pd deve ascoltare il grido di protesta che rappresenta il M5S, il movimento di Grillo deve anche accettare che la voce del quasi 40% degli italiani che ha votato per il Pd e per Monti va rispettata.

Se invece il Pd non coglierà l’opportunità di questo momento e le persone elette nel movimento di Grillo si arroccassero in posizioni di pura intransigenza e su posizioni poco realistiche, il risultato sarà il caos totale, un disservizio vero verso la stragrande maggioranza degli italiani che vuole qualcosa di meglio e non solo la ripetizione dell’esistente, ma che vuole anche una certa stabilità e governabilità. Altrimenti queste forze faranno un grande regalo al berlusconismo, la forza che non vuole cambiare niente e che farà di tutto per approfittare del caos per proteggere i propri interessi e impedire che il paese progredisca.
di Alexander Stille, da Repubblica

mercoledì 13 febbraio 2013

Un monarca nelle piazze



I partiti tradizionali sembrano rassegnati al quasi certo exploit elettorale di Beppe Grillo. Anzi, sembra che lavorino per lui. In un anno e passa di inattività, affidata a un governo tecnico la missione di far uscire l'Italia dai guai, non hanno nemmeno cominciato a ridurre sul serio i costi esorbitanti della politica, regalando fertile terreno all'antagonismo polemico del Movimento 5 Stelle. E ora, mentre fanno a gara per conquistare il Premio simpatia e affabilità in tv, lasciano a Grillo la fatica delle piazze, città per città, provincia per provincia, con un tour capillare simile a quello che lo ha già fatto trionfare in Sicilia, nella latitanza distratta degli altri leader nazionali. Perciò non potranno lamentarsi quando, a urne aperte, si scoprirà l'effettiva dimensione del consenso grillino e dovranno sperare, per il dopo, che Grillo commetta molti errori per permettere loro di tirare un po' il fiato.

Il primo errore che Grillo potrebbe commettere, ricambiando così il favore che i partiti gli stanno facendo con la loro inerzia e il loro immobilismo, è di pensare che un semplice umore, per quanto esacerbato, sia capace di durare nel tempo. Non tutte le proteste antisistema sono uguali. E se la Lega delle origini aveva un radicamento territoriale (il Nord), una base sociale (il «popolo delle partite Iva» e delle piccole e piccolissime imprese), una bandiera (il federalismo) per rivelarsi, come è accaduto, un fenomeno duraturo, il movimento di Grillo appare invece più volatile, legato a uno stato d'animo di esasperazione, all'invettiva, alla collera, al «vaffa» gridato ed esibito: una cosa potentissima, quando c'è, ma sfuggente, mutevole, infida. Che farà Grillo, per tenere insieme i suoi presumibili milioni di voti, il numero elevatissimo di parlamentari eletti, una rappresentanza istituzionale tutt'altro che marginale? Imporrà per cinque anni ai suoi di mandare senza tregua tutti a quel paese, di urlare il malcontento, di denunciare le malefatte dei partiti incapaci di autoriformarsi?

Certo, i seguaci di Grillo cavalcheranno in Parlamento la battaglia per la riduzione dei privilegi della politica. Ma saranno capaci di dire qualcosa, per fare degli esempi, sulle politiche del lavoro, sul sistema fiscale, sulle unioni civili, sulla scuola e l'università? Oggi Grillo dice ai suoi di avere una «visione». Basterà la «visione» per non vanificare un consenso che si profila tanto imponente? Grillo ha sin qui guidato in modo dispotico la sua creatura politica, selezionando le candidature con criteri assai discutibili, teorizzando e praticando la defenestrazione dei dissidenti. Potrà esercitare un potere assoluto sull'esercito dei neoparlamentari oppure la smetterà di avere paura di voci autonome, di contributi e contenuti non conformisti da parte dei suoi? È troppo chiedere oggi a Grillo un programma dettagliato (che pure c'è, consultabile su Internet, pasticciato e generico come tutti i programmi elettorali)? Certo, non è questo il carburante che sta spingendo la sua macchina, animata da spirito di protesta, di umori «anti» tutto, di insopportazione per le espressioni meno onorevoli della politica di questi decenni. Non è detto però che i suoi stessi elettori non vogliano chiedere a Grillo qualcosa di meno effimero di un corale «vaffa». Se non un impegno, almeno un'indicazione su come si comporteranno i parlamentari e sulle scelte da compiere. È «vecchia» politica anche questa?

di Pierluigi Battista, dal Corriere

Bugie elettorali con le gambe corte


Che brutte elezioni!Sino a fine mese la campagna elettorale diventerà rituale (in televisione) e i sondaggi di opinione dovranno essere clandestini. Poco male. Per mio conto ho già visto e sentito abbastanza. Per dirla alla Renzi, in partenza il «rottamando» sembrava che dovesse essere un Berlusconi che usciva di scena con il sorriso a tutti i denti e docile come non mai. Invece no. È lestamente tornato in scena più in forma di sempre, e in campagna elettorale è sicuramente stato il più bravo di tutti.

Il secondo vincitore, si direbbe, è Grillo. Riempie le piazze, azzecca spesso le critiche che piacciono anche per la loro volgarità, e risulta dai sondaggi che spedirà in Parlamento parecchie brave persone che però sono in grandissima parte digiune di tutto quel che occorre sapere per legiferare e governare. Monti, invece, non ha avuto sufficiente presa elettorale. Combattere una elezione cominciando dal discettare su «destra» e «sinistra» dimostra che quel mestiere non gli è congeniale. Quanto a Bersani, è persona solida che però non brilla mai; e che per di più (o per di peggio) si è voluto incastrare in una alleanza di ferro con Nichi Vendola, morbido nel dire ma fanatico nel pensare; il che sposta il Pd a sinistra e ne spaventa la componente e l'elettorato riformista.

Su queste premesse, e mettendo in conto una legge elettorale che è davvero un pasticcio (oltre che una «porcata»), è probabile e anche sperabile che avremo un Parlamento breve, nato morto. Tutti, a parole, hanno detto che il Porcellum andava cambiato; ma sotto sotto sia Berlusconi che Bersani erano tentati dall'enorme (abnorme) premio di maggioranza di quella legge, e quindi hanno manovrato, sotto sotto, per tenersela. Se così, male; male certamente per uno di loro, ma anche probabilmente male per tutti.

Intanto è interessante capire come è che il Cavaliere batte qualsiasi rivale nell'arte della «bugia continua», tale perché ogni volta viene creduta. Il suo genio è stato di inventare un alibi perfetto: la favola che il nostro capo del governo è impotente, che la Costituzione non gli consente di fare nulla. Questo alibi è falso; ma come fa il grosso pubblico a saperlo? Eppure nelle cose che interessano lui e i suoi interessi il nostro Cavaliere non si è mai lasciato fermare da nessuno. Ha persino imposto alla sua maggioranza in Parlamento di votare che lui riteneva in buona fede che Rubi «rubacuori» fosse egiziana, e anche nipote di Mubarak! Impotente o strapotente? La verità è che se l'alibi di Berlusconi è fasullo, è anche vero, ad onor del vero, che il grosso dei nostri costituzionalisti propone da tempo piccoli e facili rimedi atti a rafforzare i poteri del capo del governo per quel tanto che sarebbe utile e anche necessario. Ma il Cavaliere non è interessato. Per dare credibilità al suo alibi ci racconta che è tutta la Costituzione che va rifatta. Proprio no. Anche io l'ho scritto e spiegato non so quante volte. Ma il Cavaliere non legge, e il suo pubblico nemmeno. Per di più, il Cavaliere si è anche munito, per il futuro, di un secondo alibi: è l'Europa che gli lega le mani, è la Germania che lo vuole fare fuori.

Ma se il suo potere è così impotente, la domanda è: perché ci tiene tanto? Lui lo sa. Credo di saperlo anch'io. Ma è tempo che anche gli elettori lo scoprano. Sennò, peggio anche per loro.

di Giovanni Sartori, dal Corriere

lunedì 11 febbraio 2013

Le trappole che la politica non disinnesca per le imprese


di Lionello Mancini , dal Sole 24 Ore
Nell'arco di un paio di settimane avremo un nuovo Parlamento, ancora un paio e s'insedierà un nuovo Governo; dopo qualche mese un nuovo inquilino abiterà il Quirinale. Nessuno può dire, oggi, quali schieramenti prevarranno, di che qualità saranno i nostri prossimi governanti, legislatori, vertici istituzionali.

Lo sapremo presto. Intanto è possibile valutare come le forze politiche uscenti abbiano operato per il funzionamento della "buona" economia.
Il primo marker può essere il rapporto "Camere aperte" di Openpolis, che misura il tempo impiegato dal Parlamento per varare le leggi. Lasciando fuori il periodo "tecnico-emergenziale", scopriamo che i due provvedimenti approvati più velocemente stavano a cuore ai giocolieri della politica: l'accorpamento referendum-ballottaggi nel 2009 (6 giorni per approvarlo) e la norma salva-liste alle regionali 2010 (7 giorni); la terza legge-fulmine è stata l'ultima manovra correttiva di Berlusconi, licenziata in soli 8 giorni. Al contrario, le leggi che hanno richiesto un tempo esasperante per vedere la luce, sono state quelle sullo statuto delle imprese (1.283 giorni), quella antiusura-antiestorsione (1.357) e - da record - la normativa anticorruzione con i suoi 1.456 giorni trascorsi dal centrodestra a depotenziare il testo del ministro Severino.
Secondo marker, che è sufficiente accennare perché più volte (inutilmente) già misurato, è quello della formazione delle liste elettorali. La maggior parte dei partiti ha semplicemente ignorato la forte domanda di pulizia del Paese e - pur con eccezioni degne di nota - sono stati ripresentati nomi di notissimi incompetenti, senza risparmiarci gli assenteisti, gli imputati e persino i condannati per corruzione. Un segnale così platealmente negativo gonfia le file degli astensionisti e riempie i bacini dell'antipolitica ma, soprattutto, fornisce uno specchio deformato per la società civile, dagli amministratori di condominio agli amministratori delegati.
L'ultimo campanello d'allarme, suonato con vigore dal presidente del Consiglio superiore della magistratura, Giorgio Napolitano, è quello delle nomine sospese per i vertici di uffici giudiziari delicati per territorio - come Palermo e Reggio Calabria - o per funzione, come la Procura nazionale antimafia. Fossero lungaggini burocratiche sarebbe già grave, perché il grado di efficienza repressiva di Reggio Calabria o di Palermo si riflette su tutto il Paese. Ma è persino peggio di così perché, stando alle parole del Capo dello Stato, i giochi in questi (e in altri) uffici non si chiudono per contrasti tra «le componenti della magistratura», ovvero tra le correnti delle toghe. E se lo dice lui…
L'elenco disdicevole sarebbe ancora lungo, fra voti di scambio, denegati pagamenti pubblici, banche che si fanno gli affari loro, sprechi, poltrone e poltroncine fameliche, spending review a senso unico.
In questo quadro, al sistema economico sono stati richiesti sforzi eccezionali per non soccombere e, insieme, per non cadere nelle trappole di cui ogni crisi è disseminata. Trappole che scattano, spietate, solo per l'impresa e mai per la politica. Sarebbe bello se la nuova legislatura disinnescasse un po' di queste trappole e non a parole, ma soprattutto dando il buon esempio.

“In classe siamo 85 mila”


Il fenomeno dei corsi online
“In classe siamo 85 mila”

di MARCO BARDAZZI , dalla Stampa
La prossima idea che cambierà il mondo stavolta potrebbe non nascere in un garage della Silicon Valley. Il nuovo Steve Jobs o Larry Page può essere uno dei ragazzi pachistani che si ritrovano a studiare insieme nella caffetteria di un Ikea nei sobborghi di Londra, «perché c’è spazio e la connessione al web è molto veloce».

O una delle ragazze di Manila che hanno creato un gruppo di studio filippino su Facebook dove si scambiano idee e appunti. O magari è Yusuf, 26 anni, un veterinario della Nigeria che scalpita per creare una sua azienda e giura di avere in mente una start-up che sarà «un successone».

La geografia li considera lontanissimi gli uni dagli altri, ma sono tutti compagni di classe. Frequentano insieme un corso universitario che si intitola «Sviluppo di idee innovative per nuove aziende», tenuto dal professor James V. Green, docente di Economia all’Università del Maryland. Quella di Green è una classe multietnica e senza dubbio affollata: c’è Yusuf, ci sono i pachistani di Londra, ci sono le ragazze filippine, ci sono io, giornalista italiano, e con noi ci sono altri 85.000 studenti di ogni parte del mondo.

Non uno dei 193 Paesi membri dell’Onu sembra mancare nella classe in cui il professore americano insegna a lanciare un’impresa di successo. Benvenuti alla nuova frontiera dell’educazione globale. O se preferite, come dice Thomas Friedman nell’analisi qui sotto, benvenuti nella «rivoluzione» dei MOOC (Massive open online course), la sigla che definisce le realtà universitarie che permettono la distribuzione via web di educazione di qualità a chiunque. Gratis.

Il fenomeno sta decollando a un ritmo impressionante. Coursera.org, la piattaforma accademica che ospita anche le lezioni del professor Green, è nata solo otto mesi fa e già conta 2,5 milioni di iscritti, ai quali offre corsi di 33 atenei prestigiosi come Stanford, Columbia, Duke, Brown, MIT o Princeton. Altre realtà analoghe come Udacity o edX (un consorzio che fa capo ad Harvard) stanno sviluppando offerte analoghe. L’idea è distribuire gratuitamente a chiunque sappia parlare inglese corsi universitari finora riservati a chi può permettersi rette da 40 mila dollari l’anno.

I corsi prevedono scadenze e test da rispettare: alla fine viene rilasciato un certificato a cui presto le università americane riconosceranno un valore in termini di credits. Si possono frequentare corsi gratuiti a scelta, senza limiti. La speranza dei campus è stimolare la «fame» di sapere con un aperitivo accademico, per raccogliere nuovi iscritti.

Entrare in una di queste università online è semplice come iscriversi a Facebook. «La Stampa» ha fatto la prova su Coursera. Il primo passo è creare un profilo, analogo a quello che molti di noi hanno già sul web: età, nazionalità, una foto, una breve descrizione e i link alle pagine personali su Twitter, Facebook, G+ e soprattutto LinkedIn, il social media per condividere esperienze di lavoro e di studio.

In cinque minuti ti scopri «matricola» in un campus delle meraviglie, dove c’è l’imbarazzo della scelta per chi ha voglia di studiare. In questo momento Coursera offre 221 corsi gratuiti di ogni genere. Volete capire gli algoritmi sotto la guida di due professori di Princeton? Siete ancora in tempo, il corso è partito il 4 febbraio e dura sei settimane. Vi interessa approfondire il tema (attualissimo) dell’ingegneria finanziaria e del risk management? Tre professoroni della Columbia sono vostri per dieci settimane. E ancora: introduzione al pensiero matematico, principi di macroeconomia, studio dei «big data».

C’è pane anche per i denti degli umanisti. Immaginate cosa significa per un ragazzo di un paese in via di sviluppo studiare gli antichi greci con un professore della Wesleyan University, come se fosse con lui nel campus del Connecticut.

Individuato il corso, si entra in classe. A noi 85 mila studenti del professor Green è richiesto di seguire 5-6 video lezioni alla settimana (si può accedere a qualsiasi ora del giorno o della notte, a prescindere dai fusi orari), scaricare le slides del docente, rispondere a mini-quiz durante la lezione e a test settimanali di verifica tipici del sistema americano: risposte multiple, «vero o falso» e brevi elaborati. Lezione dopo lezione, Green guida la sua platea planetaria alla scoperta della mentalità imprenditoriale e dei processi di scelta, insegna a preparare un business plan e una strategia di marketing di base.

Parlando dal suo ufficio in Maryland, offre a ragazzi africani o asiatici esempi presi dal mondo reale, spiegando come funziona la rete di vendite di Amazon o come la Ferrari riesce a creare aspettative e desideri legati alle sue auto. Infine offre informazioni preziose su come raccogliere capitale per una start-up e come disegnare strategie di crescita.

Manca ovviamente il contatto umano di un tradizionale ambiente universitario. L’alternativa qui sono i forum di discussione, che nascono spontaneamente per provenienza geografica o linguistica. Gruppi di studio in ogni idioma, italiano compreso. Sono pochi però i cinesi, a testimonianza della difficoltà di vivere liberamente la Rete in Cina. E per chi vuole comunque incontrare gli altri e studiare insieme, si ricorre ai Meetup - gruppi di chi condivide interessi comuni - e ci si incontra in una caffetteria di Starbucks, una biblioteca o anche all’Ikea.

Lo spirito con cui gli studenti partecipano non è diverso da un campus tradizionale. Ci sono quelli che si lamentano per i voti, quelli che criticano lo stile d’insegnamento e chi ha problemi con i video «difficili da caricare». Ma la maggior parte è d’accordo con Yusuf, il veterinario nigeriano: «Nonostante molti pensino il contrario, la verità è che non c’è mai stata un’epoca come questa nel mondo per far diventare realtà i nostri sogni».

domenica 10 febbraio 2013

Il rompicapo del voto utile


LIBERA SCELTA E CALCOLI ELETTORALI
Il rompicapo del voto utile
Sui cieli della campagna elettorale volteggiano promesse, favole, miraggi. Normale: non si raccontano mai tante bugie come prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia, diceva Bismarck. Ed è altrettanto normale, in questi casi, che ciascuno punti l'indice contro la menzogna altrui. Ma c'è invece un assioma che trova sempre d'accordo almeno un paio fra i contendenti. E non si tratta più di blandire l'elettore, quanto piuttosto d'intimargli un altolà. Voto utile, ecco il suo nome di battaglia. Insomma, attento a dove metti la tua croce sulla scheda, altrimenti sprecherai la scheda. Così ripetono all'unisono Bersani e Berlusconi, nemici nell'urna, alleati nell'assioma.
Lì per lì, non fa una grinza. Specie con questa legge elettorale, dove chi ha un voto in più dell'avversario s'accaparra il 54% dei deputati. Perché disperdere le forze, perché sciupare fieno per il cavallo zoppo, quando a sinistra come a destra corre un unico cavallo che può tagliare i nastri del traguardo? Sennonché c'è una trappola logica dietro questo imperativo logico. Anzi due, anzi tre, anzi quattro.

Primo: l'imbalsamazione del passato. Siccome nel Parlamento uscente c'erano due partiti a farla da padroni, spadroneggeranno per tutti i secoli a venire. Ma le elezioni servono per decidere il futuro, non per scattare un'istantanea sul passato. Secondo: la santificazione dei sondaggi. Non è forse vero che Pdl e Pd viaggiano in testa per tutti gli istituti demoscopici?

ontrodomanda: e allora che votiamo a fare? Tanto varrebbe sostituire ai 40 milioni d'elettori i mille italiani costantemente intervistati, risparmieremmo tempo e denaro. Terzo: l'abolizione dei candidati. Fino a prova contraria, la scelta elettorale dipende dai programmi dei partiti, però dipende al tempo stesso dalle facce dei signori di partito. E se nel nostro collegio si presentasse una faccia da schiaffi? È sempre un voto utile quello dispensato al candidato inutile?

Tuttavia la spina più pungente è ancora un'altra, e punge l'elettore, oltre che la logica. Per osservarla non c'è bisogno di scomodare Euclide: difatti se esiste un voto utile, specularmente esiste un voto inutile, e dunque un elettore inutile. Non proprio il massimo di rispetto verso il popolo votante. Tanto più di questi tempi, ora che gli anni d'oro del bipolarismo sono ormai un ricordo dell'infanzia. Ma la proliferazione delle liste è un effetto del disorientamento del corpo elettorale, e di ciò portate voi la colpa, non noi. Voi che avete difeso il Porcellum con le unghie, fingendo di volerlo cambiare. Sicché non possiamo scegliere gli eletti, e a quanto pare nemmeno i partiti. Ci scoraggiate a praticare il voto disgiunto, che è un altro modo per esercitare la nostra libertà di scelta. Facciamo così: andateci voi a votare al posto nostro, sarà un pensiero in meno.

E c'è infine un'ultima questione. Il voto utile è per definizione un voto contro: contro il nemico, ma altresì contro l'amico. Perché mette in guardia l'elettore contro la sua prima scelta, perché lo invoglia al male minore, altrimenti si beccherà il male maggiore. Dunque trasforma l'opzione elettorale in un atto d'inimicizia, o quantomeno di sfiducia: ti voto solo perché non ho fiducia che vinca il mio partito. Ma non può esserci speranza in una scelta disperata, in un voto sequestrato dalla paura del nemico.
michele.ainis@uniroma3.it

di Michele Ainis, dal Corriere

giovedì 7 febbraio 2013

La tentazione del non voto è fortissima.


La tentazione del non voto è fortissima. Ma per non delegare la scelta ad altri, e non incombendo più il pericolo del fascio-berlusconismo, possiamo votare chi è meno distante dai valori di «giustizia e libertà». Pubblichiamo l'editoriale di Paolo Flores d'Arcais che apre il nuovo numero di MicroMega dedicato alle elezioni del 24 e 25 febbraio, da giovedì 7 febbraio in edicola e su iPad .

di Paolo Flores d'Arcais

La tentazione del non voto è questa volta più forte che mai, diffusa e sostenuta da mille ragioni che per un lettore di MicroMega non sono neppure da richiamare. Ma il non voto è impossibile. È tecnicamente impossibile. Chi non si reca alle urne, o annulla la scheda o vota scheda bianca si illude di «avergliele cantate» a quelli lì (sarebbero i politicanti della Casta, messi tutti nello stesso fascio), ma il risultato del suo «non voto», l’effetto pratico, è quello di aver votato in proporzione a come hanno votato gli altri italiani. Il suo «non voto» è il voto per eccellenza conforme alla media degli italiani votanti, un voto fotocopia, il massimo del conformismo, checché ciascuno racconti alla propria anima.

Il «non voto» avrebbe un effetto punitivo sui partiti solo se un numero di seggi proporzionali ai non voti o voti non validi fosse assegnato per sorteggio (proposta che ho avanzato ma che ovviamente nessun politico e nessun politologo d’ordinanza ha provato a discutere).

Votare è inevitabile, perciò. Si vota anche col «non voto», delegandolo a quelli che votano (compresi quelli che votano il lepenista Berlusconi, Bilderberg Monti e altri Calderoli).

Chi votare, allora, visto che sottrarsi è illusorio? E visto che nessuna tra le liste presentate può essere davvero rappresentativa dei valori «giustizia e libertà» che questa rivista approfondisce fin dalla sua nascita, e che nel decennio trascorso ha contribuito a far diventare anche lotta e azione di massa, dal Palavobis a Campo de’ Fiori (manifestazione per il diritto all’eutanasia)?

Questa volta non c’è, per fortuna, l’incubo di una vittoria putiniana che avrebbe seppellito la Costituzione repubblicana e avviato la trasformazione delle macerie cui Berlusconi ha ridotto il paese in fascismo vero e proprio (anche se in luccicante veste postmoderna). Non incombendo perciò il fascio-berlusconismo, non ha senso un voto condizionato dalla paura. Bisogna votare chi è meno distante dai valori di «giustizia e libertà» dei movimenti di lotta e di opinione del decennio trascorso.

Votare Pd significa votare per l’Agenda Monti inzuccherata da una coltre nemmeno troppo spessa di ipocrisia e belle chiacchiere. Che il programma di Monti e quello di Bersani siano praticamente sovrapponibili è l’insistita tesi di Eugenio Scalfari, che qui ha, eccezionalmente, ragione da vendere. E che proprio per questo appoggia Bersani col cieco entusiasmo ormonale di una verginella alla prima cotta. Incomprensibile è perciò Sel, che snocciola quotidianamente, con la fastidiosa «poeticità» di Vendola, intenti di segno opposto, ma i cui voti andranno all’ammasso del governo Bersani, il cui programma squisitamente scalfarian-montiano è stato del resto legittimato dalle primarie e con ciò divenuto quello di tutta la coalizione.

In questo ambito meno ancora si capisce la candidatura in Sel, anche se nobilitata dall’etichetta «indipendente», di Giorgio Airaudo, straordinario dirigente sindacale, numero 2 della Fiom, che sa benissimo come nessuna, ma proprio nessuna, delle rivendicazioni Fiom, saranno accolte dal governo Bersani (che non ne fa mistero, e ha voluto come fiore all’occhiello l’ex direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli). Col suo prestigio contribuirà alla nascita di un governo che avrà la Fiom e i lavoratori in gran dispetto, e farà una politica antioperaia che se non è Marchionne è pan bagnato. Che logica c’è?

Le liste del M5S sono piene di bravissime persone, di giovani dalle migliori intenzioni, qualcuno nato anche nel crogiuolo delle lotte degli scorsi anni. Ma la selezione che li ha candidati ha una dignità che è perfino inferiore a quella del sorteggio (procedura niente affatto disprezzabile, sia chiaro, dalla Grecia di Pericle alle attuali giurie dei processi anglosassoni), visto che si è stati scelti per un pugno di voti (l’unità di misura era la decina) grazie al consenso degli amici-facebook, sulla base di autopresentazioni video spesso imbarazzanti. Inoltre c’è Grillo (con Casaleggio), senza il quale il movimento neppure esisterebbe e che resta motore e fondamento della sua esistenza, il che tuttavia vanifica ogni retorica su «uno vale uno» e mette M5S in balia degli umori del padre padrone e delle sue idiosincrasie che troppe volte si tingono di qualunquismo.

La novità, anche in termini cronologici, è la lista Rivoluzione civile di Antonio Ingroia. Una grande occasione dissipata. Facciamo un semplice esperimento mentale. Anche andasse a gonfie vele (è la mia speranza), questa non potrebbe superare il 10 per cento dei deputati alla Camera, e molto meno al Senato. Dei quasi mille candidati, oltre 900 sono insomma sicuri di non essere eletti. Immaginiamo che Ingroia (dopo aver sottolineato che nessun dirigente di partito o partitino sarebbe entrato nelle liste) avesse perciò rivolto a un numero equivalente di personalità della società civile l’invito a impegnarsi come candidati testimonial: nessuno avrebbe potuto rivolgere loro l’accusa di brigare una poltrona, vista la certezza di non essere eletti, ma la loro presenza avrebbe evidenziato come il meglio della società italiana, delle sue lotte democratiche, delle sue energie morali e delle sue competenze professionali si riconoscesse in una lista davvero inedita, capace di volgere in positivo il mare di indignazione e rabbia contro la partitocrazia che la stessa, e i suoi aedi mediatici, bolla di «antipolitica» e costituisce invece solo la crescente volontà di Altrapolitica.

Pensate ai novecento più bei nomi della «democrazia presa sul serio», dai più ovvi ai più sorprendenti, e l’impatto straordinario che ciò avrebbe avuto per fare da catalizzatore e moltiplicatore di una campagna elettorale. Novecento «partigiani della Costituzione» che si rivolgono ai cittadini con tutto il peso della credibilità e della stima legata ai loro nomi per una vita di impegno civile e/o di eccellenza professionale, invitandoli a fondare club, raccogliere firme, proporsi come volontari nella campagna elettorale e nello scrutinio, mobilitarsi nelle piazze e nel web, agendo da opinion makers ciascuno nel proprio ambito di influenza, dal quartiere alla scuola, dalla fabbrica agli amici.

Credo che sarebbe davvero successo un Big Bang politico, che avrebbe eclissato quello di Grillo, che avrebbe richiamato alle urne masse di cittadini disillusi e stanchi, che avrebbe stabilito parametri inequivocabili e da nessuna altra lista neppure approssimabili, di novità radicale, di serietà programmatica e di credibilità. Invece, alcune bellissime candidature, impastate con logore personalità di un «arcobaleno» stantio, e mi fermo qui.

Tanto più malinconico, questo piccolo cabotaggio, che nel frattempo si è realizzata la più inattesa delle vittorie, per la società civile che in questi anni ha lottato nel disprezzo o peggio nel silenzio dei media asserviti alla partitocrazia: il ritorno della questione morale al centro della scena pubblica. Mentre scrivo, nessuno dei «grandi» editorialisti dei «grandi» quotidiani si è sentito in dovere di analizzare la svolta clamorosa avvenuta nel «sentire comune», visto che solo pochi giorni prima nessuno avrebbe scommesso il proverbiale nichelino bucato su Berlusconi che caccia dalle liste Dell’Utri e Cosentino (avrebbero detto che erano wishful thinking di giustizialisti in preda all’acido lisergico), e nemmeno sulla cancellazione dalle liste Pd di tre «impresentabili» (i più potenti) su una decina.

Sono i sondaggi che hanno fatto il miracolo, cioè la rilevazione ripetuta che zone crescenti di cittadini decideranno il proprio voto privilegiando la questione morale. Il che significa che non c’è solo l’Agenda Monti, e la sua versione agghindata Agenda Bersani, c’è l’Agenda Mani Pulite, e rimarrà centrale (insieme all’Agenda Fiom sui diritti dei lavoratori) per tutta la prossima legislatura.

Legislatura che potrebbe essere anche breve, viste le contraddizioni in cui tutte le principali forze politiche sono avvitate. E visto che su legalità, lavoro, informazione si aprirà immediatamente lo scontro. Con un Pd che in tempi rapidissimi entrerà in tensione e poi in rotta di collisione con settori molto ampi del suo elettorato; con i branchi berlusconiani (i facoceri – famiglia dei Suidi – li chiama affettuosamente Il Foglio di Giuliano Ferrara, scambiando per civettuola ironia quella che è proprio esattezza zoologica) che cominceranno lo smottamento e il si-salvi-chi-può dopo la sentenza Ruby; e con l’opposizione dei cento/duecento parlamentari grillini che rapidamente sarà costretta a sottrarsi agli ukase isolazionisti e no-tv del leader Beppe ed entrerà in fibrillazione e scomposizione.

In questo quadro di prevedibilissima instabilità, i temi del lavoro, del contrasto alle mafie e alla corruzione, dell’informazione, innescheranno nuove lotte, crogiuolo per quella forza politica «giustizia e libertà» la cui invenzione ab imo sarà più che mai all’ordine del giorno. Aggiungiamo il tema della laicità, che diventerà cruciale, perché in parlamento ci sarà finalmente di nuovo una maggioranza largamente laica (considerando che ai tre quarti del Pd e di Sel si aggiungono quasi tutti gli eletti di M5S, di Ingroia e parte del centro). Bersani dovrà assumersi in prima persona la responsabilità di un eventuale persistente (e sciagurato) «bacio della pantofola», senza più nascondersi dietro al dito delle componenti cattoliche. Dovrà decidere, sul matrimonio omosessuale e sull’eutanasia, se stare con le moderatissime sinistre europee, che su tali temi procedono a tappe forzate, schiantando ogni resistenza clericale, o se invece vorrà prostrarsi di fronte alle Loro Eminenze di turno. La società civile, può starne certo il leader Pd, non resterà accidiosa, avrà gli atout migliori dai tempi dei referendum radicali a oggi, e li giocherà nelle piazze con la doverosità che queste battaglie di civiltà esigono.

P.S. Come si sarà capito, voterò Rivoluzione civile. Certamente alla Camera, mentre al Senato, se nella mia regione ci fosse assoluta certezza che non potrà raggiungere il quorum, voterò M5S.

(7 febbraio 2013)