domenica 30 dicembre 2012

Liberarci da Monti e dal Montismo


di Lelio Demichelis,da Micromega

Se fossimo credenti (ma non lo siamo), la nostra preghiera al Signore sarebbe facile: e liberaci dal male. E quindi, da Monti, dal montismo e dai tanti montisti d’occasione.

Liberaci da Monti, dal montismo come nuova versione del pensiero unico e dai montisti. Liberaci dal ‘male’ economico e sociale che si è prodotto, un male che non è la ‘privatio boni’ di Agostino ma è quel ‘male’ ideologico che è stato deliberatamente prodotto dal neoliberismo, dai suoi ideologi e dai suoi sacerdoti e teologi (i professori, gli esperti, i tecnici).

Liberaci da quella nuova ‘banalità del male’ che è andata a colpire i deboli e non i patrimoni, il lavoro e non la finanza e la speculazione (rinviando persino la Tobin tax promessa), le pensioni e non i bonus dei manager; che ha tagliato ricerca istruzione e formazione (un paradosso nel paradosso, o un nichilismo nel nichilismo, essendo un governo di ‘professori’); che ha ridotto i diritti al lavoro, alla salute, all’istruzione, all’ambiente, alla cittadinanza (diritti costituzionali, che sarebbero quindi ‘indisponibili’), che ha impoverito la democrazia in nome dello ‘stato d’eccezione’, che teme i populismi che esso stesso ha creato e prodotto, senza però vedere la consequenzialità tra causa ed effetto.

La ‘banalità del male’ economico

Un ‘male’ (impoverimento, disuguaglianze, disoccupazione, rassegnazione), che viene imposto in modi molto ‘cattolici’ (ma certo non cristiani), come doverosa ‘testimonianza di fede’ neoliberista, una fede ideologica, il capitalismo come autentica religione secondo Walter Benjamin (una religione cultuale, “forse la più estrema che si sia mai data”; a durata permanente; capace di generare colpa; e con il suo dio ben celato), perché anche il capitalismo “serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini” di una religione.

Un ‘male’ da subire perché deriverebbe appunto da una colpa nostra e non della finanza, delle borse e dei banchieri: la colpa di avere vissuto ‘al di sopra dei nostri mezzi’. Dimenticando che questo ‘dover vivere al di sopra dei nostri mezzi’ è stata una scelta deliberata dettata dal sistema bancario e finanziario mediante l’induzione di indebitamento crescente e di massa (facendoci passare da lavoratori a consumatori e infine a debitori). Una ‘colpa’ che ora necessita di redenzione, di salvezza, ovvero di austerità, di impoverimento, di declassamento sociale.

Un ‘male’ che deve dunque essere accettato, accolto, sopportato, persino amato, perché questa sofferenza e questo ‘male’ sono il prezzo (ci dicono i teologi del capitalismo) da dover pagare per la salvezza di domani (la crescita, la ‘luce divina’ della crescita in fondo al tunnel) – o, come ancora scriveva Benjamin: “L’estensione della disperazione a stato religioso del mondo, da cui attendersi la salvezza” (anche se pure Benjamin sbagliava quando pensava al capitalismo come religione per mero culto, “senza dogma” e senza teologi: i dogmi e i teologi esistono, eccome). Una autentica ‘pedagogia del dolore’ (come scrive Umberto Galimberti a proposito di cristianesimo), ma propria anche del capitalismo (“parassita del cristianesimo”, ancora Benjamin). Quel neoliberismo che dopo averci permesso (per i suoi profitti) di vivere al di sopra dei nostri mezzi, oggi ci impone (sempre per i propri profitti) di soffrire, di espiare – processo ben sintetizzato dal titolo di un pregevole articolo di Ida Dominijanni di un anno fa: ‘Dal godimento alla penitenza’). Ieri la bio-politica accattivante dell’edonismo, del consumismo, dell’egoismo e dell’egotismo; oggi la tanato-politica della morte civile e sociale e dell’impoverimento di massa.

Un ‘male’ che poteva e doveva essere evitato (altre ricette economiche erano possibili e doverose: Keynes e Beveridge, invece di Hayek e Friedman), ma spacciato per ‘bene’ necessario (espiare la colpa) e virtuoso (in realtà, è puro nichilismo; distruggere tutto: stato sociale, lavoro, redditi, scuola e istruzione, sicurezza sociale, per avere una nuova alba, una nuova luce – appunto – in fondo al tunnel). Una ‘banalità del male’ economico e sociale, secondo il quale producendo prima e aggravando poi la recessione con politiche pro-cicliche (e non, come sarebbe stato invece urgente e necessario e soprattutto logico e razionale, ovvero con politiche anti-cicliche) si risolvevano i problemi di debito pubblico e di deficit pubblico. Un ‘male’ prodotto ostinatamente, cinicamente – ecco la sua banalità, la sua violenza sociale, il suo nichilismo.

Tornare a Kant

Ma poiché, come detto, non siamo credenti, ma illuministi, non invochiamo il Signore e siamo convinti – a differenza della Chiesa – che religione e ragione siano due mondi separati e inconciliabili (e quindi anche una ‘religione’ economica, contraddice la ragione e la razionalità) e preferiamo rifarci a Kant, che invocava un uomo che fosse finalmente ‘soggetto autonomo’, capace di decidere da sé e quindi di uscire dalla propria ‘minorità’ che è “l’incapacità di servirsi del proprio intelletto, senza la guida di un altro”. Per cui (e invece), per ritrovare auto-nomia e ‘maggiorità’ diciamo, con Kant: “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza”. Mentre “se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”, tenendomi nel mio ‘girello per bambini’ e facendomi perdere la voglia e il desiderio di uscire dal girello e di provare a camminare, pensare, ragionare, decidere con le mie gambe e la mia testa. Da tutte le parti, diceva Kant, “odo gridare: non ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, ma fate esercitazioni militari. L’intendente di finanza: non ragionate, ma pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, ma credete!”.

Ecco, oggi siamo in una situazione molto simile a quella di allora, è solo mutato il ‘soggetto’ che ci impone di non ragionare ma di ‘’credere’ (oggi, i mercati, le agenzie di rating, i bocconiani e i banchieri). Non ragionate! Ovvero non bisogna cercare di ‘capire’ se questa adottata in Italia (come in Grecia o in Spagna e altrove) sia stata davvero l’unica ricetta economica possibile.

Piuttosto – lo dice Monti, lo dicono i grandi mass-media, lo dicono Casini e Montezemolo (sic!) – dovete ‘credere’, dovete ‘crederci’, perché noi – noi Mario Monti, Mario Draghi, Manuel Barroso, Angela Merkel – noi ci siamo assunti l’onere di farvi muovere sul girello per bambini che abbiamo realizzato per voi; perché noi siamo coloro che sanno e ‘coloro che sono’ (noi siamo coloro che siamo perché siamo gli esperti, i professori, i tecnici), voi dovete solo credere in noi, dovete fare ‘esercitazioni militari’ accettando l’ordine di diventare disoccupati o precari; voi dovete pagare le tasse e impoverirvi, perché questo è utile non solo al pareggio di bilancio ma soprattutto alla nuova divisione internazionale del lavoro (non potendo più svalutare la lira per dare fiato a un’economia che non innova, oggi si devono ‘svalutare’ il lavoro e i redditi), perché il vostro benchmark (coloro che dovete imitare, diventando come loro) per i prossimi anni saranno i lavoratori-schiavi cinesi: quello è il vostro modello, quello il vostro futuro e a noi dovete credere, perché noi siamo classe dirigente, noi sappiamo cosa è bene e cosa è male per voi e per il paese, noi siamo i vostri ‘pastori’ e voi siete il nostro ‘gregge’.

E ogni gregge – in nome della coesione nazionale invocata dal Presidente Napolitano, della competizione invocata dagli industriali o del pareggio di bilancio invocato dai ragionieri al governo (e bisognerebbe chiedere scusa ai ragionieri) – deve sempre seguire il suo ‘pastore’, colui che è, colui che sa, colui che guida e che ha costruito per le ‘pecore del gregge’ opportuni girelli per bambini, per togliere la fatica di pensare (e noi, per ‘pigrizia’ e per ‘viltà’, come diceva ancora Kant, abbiamo rinunciato al nostro diritto/dovere di pensare e di uscire dal girello che ci fa restare infantili e dipendenti).

Allo stesso tempo facendo fare a voi – voi obbedienti e rassegnati, ‘complici’ i sindacati (alcuni) e una certa sinistra – ciò che noi èlite, noi banchieri (che abbiamo provocato la crisi), noi professori della più prestigiosa (sic!) università italiana, abbiamo deciso che voi dobbiate fare.

E liberiamoci di Monti. E del montismo

Dal disastro economico e soprattutto sociale prodotto da Monti e dal montismo bisogna uscire e in fretta, perché è un disastro che si poteva e si doveva evitare usando l’intelligenza e non l’ideologia, la logica e non l’ostinazione, la fantasia e non la routine del pensiero unico neoliberista, rileggendo soprattutto come era nata la crisi del 1929 e come se ne era usciti con Roosevelt.

Ma bisogna soprattutto smettere questa corsa affannosa e insulsa a Monti e al montismo. Al Pd bisognerebbe ricordare il kantiano sapere aude! Dunque, usi l’intelligenza, il sapere, la saggezza politica, rivendichi auto-nomia dai mercati, dalle agenzie di rating, dall’ideologia neoliberista, dalla religione capitalistica, dalla paranoia del pareggio di bilancio. Esca dalla ‘paura’ e dalla ‘viltà’ di un pensiero etero-nomo perché subordinato ai mercati, rivendichi il diritto e il dovere di pensare politicamente in modi diversi, altri, auto-nomi e soprattutto lungi-miranti.

Ma il sapere aude! vale soprattutto per la società, per noi e per i nostri figli, cui stiamo negando il progresso in nome di un regresso nichilistico. Non continuità con Monti, dunque: ma una cesura radicale. Con Monti e il montismo (e il merkelismo, il barrosismo, il draghismo).

La Chiesa investe Monti. Monti si fa male, dopo aver fatto male all'Italia. Il popolo elettore non lo soccorre e lo spedisce direttamente in Chiesa.


di Gad Lerner, da Repubblica, 28 dicembre 2012

Era dai tempi lontani della Dc che il Vaticano non interveniva con tanta nettezza nella vicenda politica italiana. Mario Monti viene indicato dall’“Osservatore Romano” come il leader che oggi sarebbe in grado di corrispondere al bisogno di una “politica alta”. Facendo leva “legittimamente” sulla sua esperienza di governo “extra partes”.

L’investitura di Monti è accompagnata da un altrettanto impegnativo giudizio critico sui partiti con i quali sarà chiamato a confrontarsi nelle prossime elezioni. Sostiene, infatti, l’“Osservatore”, che “Monti è stato chiamato dai partiti a prendere decisioni inderogabili, di cui nessuno intendeva prendersi la responsabilità diretta, per timore di pagare un prezzo elettorale troppo alto”. Giudizio che suona quanto meno ingeneroso nei confronti di chi ha pur sempre sostenuto in Parlamento l’azione di risanamento finanziario dei tecnici.

Enfatizzando con una buona dose di azzardo i sondaggi favorevoli alla lista Monti, il giornale vaticano benedice “chi doveva, quasi per mandato, diventare impopolare”. Ma ora felicemente si sottrae a tale condanna; anzi, potrebbe trarre giovamento dalla sua medesima severità, rivolgendosi direttamente ai cittadini e facendo leva sul loro senso di responsabilità: “Mi hai tartassato ma mi fido, perché sei una persona seria”.

Possibile che la Chiesa di Roma sposi così, senza esitazioni, una visione rigorista della politica economica in tempi di crescente sofferenza sociale? Ci è più facile riconoscere nell’incoraggiamento a Monti dell’organo — non dimentichiamolo — di una Segreteria di Stato straniera, ben altra istintiva, atavica pulsione ideologica: erigere un argine per fronteggiare la possibilità concreta di una vittoria elettorale della sinistra.

È una vecchia storia che si ripete sempre uguale. Stiamo parlando della stessa curia vaticana, tuttora governata da Tarcisio Bertone nonostante gli scandali da cui è stata investita, e tuttora afflitta da una visione italocentrica, che mal sopportando i governi del “cattolico adulto” Romano Prodi non esitò a stipulare un patto di potere strumentale con il berlusconismo: sottocultura libertina e clericale al tempo stesso. Ma, ancor più indietro nel tempo, già in altre occasioni i vertici della Chiesa furono sospinti dalla medesima pulsione a instaurare un rapporto privilegiato con settori dell’establishment confindustriale e finanziario. Rapporto oggi mitigato dalla presenza, al fianco di Monti, di personalità dell’associazionismo cattolico come Riccardi, Bonanni e Olivero (il che peraltro non comporta una scelta di campo automatica di Sant’Egidio, Cisl e Acli). Mentre ancora incerta figura la collocazione di Comunione e Liberazione fra la destra e il nuovo Centro.

Certo, la figura di Mario Monti non è assimilabile per spessore e credibilità a quella di Berlusconi, come dimostrava ancora ieri la patetica rivendicazione di un “rango superiore” da parte di quest’ultimo. Ma quanto è credibile nel 2012 l’insistito richiamo alla figura di Alcide De Gasperi come fondatore di un grande partito moderato di matrice cattolica? Esso risuona piuttosto come una speranza antistorica, al giorno d’oggi. Tanto più fino a che il Partito Popolare Europeo tollererà la presenza tra i suoi affiliati (dal 1998) di una forza populista come il Pdl. L’eventuale, a questo punto non improbabile, espulsione del Pdl dal Ppe, favorirebbe certo una salutare ristrutturazione del nostro bipolarismo malato.

Ma anche in tal caso l’Italia difficilmente farebbe eccezione rispetto allo scenario europeo: neanche l’attivismo sul fronte moderato di molti vescovi impedirebbe all’elettorato cattolico italiano di distribuirsi liberamente fra ambedue gli schieramenti. La libertà di scelta, fra i fedeli, è ormai un dato culturale acquisito: c’è molta Chiesa viva anche nel centrosinistra, a prescindere dall’endorsement dell’“Osservatore Romano”. In particolare l’associazionismo cattolico impegnato nel terzo settore del no profit si è espresso in termini assai critici sugli inasprimenti fiscali e sui tagli con cui il governo dei tecnici ha penalizzato il volontariato sociale. Ricordiamo la copertina del mensile “Vita”, solitamente assai moderato, sulla quale compariva un Monti deformato in Dracula.

Si ripropone in definitiva il dubbio su quale peso elettorale conservi davvero l’intromissione vaticana in un paese non solo scristianizzato, ma altresì turbato dal peso eccessivo degli interessi materiali delle strutture ecclesiastiche. L’esplicita presa di posizione dell’“Osservatore” conferma che intorno al “Monti politico” si sta coalizzando un significativo fronte moderato. Ma non gli fornisce alcuna garanzia di assumere una dimensione maggioritaria.

(28 dicembre 2012)

giovedì 13 dicembre 2012

Se la fabbrica torna a casa


di Maria Teresa Cometto, da Corriere Economia, 11 dicembre 2012

Il declino industriale, con le fabbriche abbandonate e le produzioni esportate dove la manodopera costa poco mentre in patria restano solo i «servizi», non è più il destino ineluttabile dei Paesi «avanzati». Lo mostra il caso degli Stati Uniti, dove un numero crescente di aziende americane sta riportando pezzi di manifattura? un fenomeno chiamato insourcing, l'opposto dell'outsourcing di moda nei decenni scorsi? e dove addirittura anche i cinesi stanno aumentando i loro investimenti.
Qualcuno parla di «rinascimento» del made in Usa, come l'analista Nancy Lazar che sul tema ha scritto un rapporto di un centinaio di pagine per la società di ricerche Isi group.

Futuro

Il mensile The Atlantic ha dedicato la sua ultima copertina all'inchiesta sul «Perché il futuro dell'industria è in America».
E l'annuncio che i Mac della Apple tornano ad essere fabbricati negli States (articolo a pagina 3) conferma che la tendenza è reale, spinta dalla nuova matematica della globalizzazione e dalle nuove tecnologie come l'Internet industrial, la confluenza fra «macchine intelligenti», software analitico e utenti che sta cambiando anche il modo di progettare fabbriche, secondo General electric, una delle multinazionali americane protagoniste dell'insourcing. «Un'azienda globale come la nostra decide dove localizzare produzioni e centri di ricerca sulla base di fattori che cambiano continuamente: la domanda del mercato a cui vogliamo essere vicini, la produttività e specializzazione della manodopera, oggi più importanti del costo del lavoro, perché si sta gradualmente chiudendo il divario fra i salari in Usa, Europa e Cina o altri Paesi emergenti», spiega Marco Annunziata, capo economista di General electric, una delle multinazionali americane protagoniste dell'insourcing (intervista completa qui sotto).

Esemplare è la storia dell'Appliance park di Louisville in Kentucky, un parco industriale disegnato da Ge nel 1951 per fabbricare elettrodomestici, che nel 1973 aveva raggiunto il massimo di impiego con 23 mila lavoratori, per poi essere progressivamente chiuso, spostando la produzione in Cina e scendendo a meno di 2 mila dipendenti nel 2011. Il ceo di Ge Jeffrey Immelt aveva cercato di venderlo nel 2008, senza però trovare compratori nel mezzo della Grande Recessione. Ora invece ha scritto - in un articolo sulla Harvard Business Review di marzo - che l'outsourcing «sta diventando rapidamente obsoleto come modello di business per Ge appliances (la divisione degli elettrodomestici che fa dai frigoriferi ai tostapane, ndr)» e ha annunciato che investirà 800 milioni di dollari per rivitalizzare il parco.

I motivi economici dell'inversione di rotta sono molteplici: i prezzi petroliferi, oggi il triplo del 2000, rendono molto più caro spostare le merci da un continente all'altro, mentre il boom del gas naturale in America ha abbassato il costo energetico di far funzionare una fabbrica; i salari in Cina sono quintuplicati rispetto al 2000 e si stima che continueranno ad aumentare del 18% l'anno; e i sindacati americani hanno cambiato strategia, abbracciando la flessibilità nell'organizzazione del lavoro e accettando sacrifici per stipendi e benefit. Nell'Appliance park la paga oraria di base, percepita dal 70% degli operai, è di 13,50 dollari, un terzo meno di prima del contratto firmato nel 2005. La produttività quindi è salita e il peso della manodopera Usa è diventato una componente sempre più piccola del costo del prodotto finito.

Ripensamenti

Ma c'è un'altra ragione che sta facendo ripensare il modello dell'outsourcing, non solo alla General electric: il rendersi conto che la separazione della fase di progettazione di un prodotto da quella della manifattura alla lunga diventa un ostacolo all'innovazione e crea problemi nella fattura del prodotto stesso. Lo mostra il caso di GeoSpring, un tipo di scaldabagno innovativo (usa il calore ambientale per scaldare l'acqua, risparmiando il 60% di elettricità rispetto ai modelli tradizionali): la sua produzione è stata una delle prime riportate da Ge dalla Cina a Louisville, lo scorso febbraio. Con una bella sorpresa: i tecnici e gli operai americani hanno scoperto che i cinesi lo facevano malissimo e si sono mesi insieme a ridisegnarlo riducendo il numero dei componenti, semplificando l'assemblaggio e accorciando i tempi (da dieci a due ore). Risultato: la qualità è salita e il prezzo diminuito - da 1.599 a 1.299 dollari al dettaglio -, senza contare che dalla fabbrica ai negozi bastano pochi giorni per la consegna invece delle cinque settimane necessarie dalla Cina.

«I problemi e le idee che nascono in fabbrica dovrebbero far parte integrante del processo di Ricerca & sviluppo di un'azienda. Progettisti e designer, tecnici e operai dovrebbero lavorare a stretto contatto e non con un oceano, una cultura e una lingua diverse di mezzo. Per questo motivo, e per tutti i costi nascosti dell'outsourcing, come le difficoltà di comunicazione, un quarto di ciò che oggi viene fabbricato altrove sarebbe più profittevole se fatto negli States», secondo l'ingegnere Harry Moser, promotore della Reshoring iniziative.
Oltre General electric, hanno ripreso la strada di casa Whirlpool, che ha spostato delle lavorazioni dalla Cina all'Ohio, Otis che ha riportato gli ascensori dal Messico al Sud Carolina, Wham-O che ora produce i frisbee in California invece che in Cina.
Resta da vedere se, mancando il boom del gas naturale e con sindacati meno disponibili, il miracolo della reindustrializzazione sia possibile anche in Europa e in Italia.

(12 dicembre 2012)

Lo spirito del tempo


L'Europa ha reagito stupita e indignata al "ritorno in campo" di Berlusconi. Ma tanto stupore stupisce. I lamenti hanno qualcosa di ipocrita: se il fenomeno Berlusconi ha potuto nascere, e durare, è perché l'Europa della moneta unica lo ha covato, protetto. Una moneta priva di statualità comune, di politica, di fiato democratico, finisce col dare questi risultati.

di Barbara Spinelli, da Repubblica, 12 dicembre 2012

L'Europa, cui ci siamo abituati a guardare come al Principe che ha il comando sulle nostre esistenze, sta manifestando preoccupazione, da giorni, per il ritorno di Berlusconi sulla scena italiana. È tutta stupita, come quando un'incattivita folata di vento ci sgomenta. I giornali europei titolano sul ritorno della mummia, sullo spirito maligno che di nuovo irrompe. Sono desolate anche le autorità comunitarie: "Berlusconi è il contrario della stabilità", deplora Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo.

Tanto stupore stupisce. Primo perché non è così vero che l'Unione comandi, e il suo Principe non si sa bene chi sia. Secondo perché i lamenti hanno qualcosa di ipocrita: se il fenomeno Berlusconi ha potuto nascere, e durare, è perché l'Europa della moneta unica lo ha covato, protetto. Una moneta priva di statualità comune, di politica, di fiato democratico, finisce col dare questi risultati. La sola cosa che non vien detta è quella che vorremmo udire, assieme ai compianti: la responsabilità che i vertici dell'Unione (Commissione, Consiglio dei ministri, Parlamento europeo) hanno per quello che succede in Italia, e in Grecia, in Ungheria, in Spagna.

Se in Italia può candidarsi per la sesta volta un boss televisivo che ha rovinato non poco la democrazia; se in Ungheria domina un Premier - Viktor Orbán - che sprezza la stampa libera, i diritti delle minoranze, l'Europa; se in Grecia i neonazisti di Alba Dorata hanno toni euforici in Parlamento e alleati cruciali nell'integralismo cristiano-ortodosso e perfino nella polizia, vuol dire che c'è del marcio nelle singole democrazie, ma anche nell'acefalo regno dell'Unione. Che anche lì, dove si confezionano le ricette contro la crisi, il tempo è uscito fuori dai cardini, senza che nessuno s'adoperi a rimetterlo in sesto. Gli anni di recessione che stiamo traversando, e il rifiuto di vincerla reinventando democrazia e politica nella casa europea, spiegano come mai Berlusconi ci riprovi, e quel che lo motiva: non l'ambizione di tornare a governare, e neppure il calcolo egocentrico di chi si fa adorare da coorti di gregari che con lui pensano di ghermire posti, privilegi, soldi. Ma la decisione - fredda, tutt'altro che folle - di favorire in ogni modo, per l'interesse suo e degli accoliti, l'ingovernabilità dell'Italia. Chi parla di follia non vede il metodo, racchiuso nelle pieghe delle sue mosse. E non vede l'Europa, che consente il caos proprio quando pretende arginarlo.

Cosa serve a Berlusconi? Un mucchietto di voti decisivi, perché il partito vincente non possa durare e agire, senza di lui, poggiando su maggioranze certe alla Camera come al Senato, dove peserà il voto di un Nord (Lombardia in testa) che non da oggi ha disappreso il senso dello Stato. Così fu nell'ultimo governo Prodi, che aveva il governo ma non il potere: quello annidato nell'amministrazione e quello della comunicazione, restato nelle mani di Berlusconi. La guerra odierna non sarà diversa da quella di allora: guerra delle sue televisioni private, e di una Rai in buona parte assoggettata. Guerra contro l'autonomia dei magistrati, mal digerita anche a sinistra. Guerra di frasi fatte contro l'Europa (Che c'importa dello spread?). Guerra del Nord contro il Sud, se risuscita l'asse con la Lega. L'arte del governare gli manca ma non quella del bailamme, su cui costruire un bellicoso potere personale d'interdizione. La democrazia non funziona, senza magistrati e giornali indipendenti, e proprio questo lui vuole: che non funzioni. Se non teme una candidatura Monti, è perché non è detto che essa faciliti la governabilità.

Ma ecco, anche in questo campo l'Europa ha fallito, non meno degli Stati. La libera stampa è malmessa - in Italia, Ungheria, Grecia, dove vai in galera se pubblichi la lista degli evasori fiscali. Ma nessun dignitario dell'Unione, nessun leader democratico ha rammentato in questi anni che il monopolio esercitato da Berlusconi sull'informazione televisiva viola in maniera palese la Carta dei diritti sottoscritta nel 2007. È come se la Carta neanche esistesse, quando importano solo i conti in ordine.

Nessuno ricorda che la Carta non è un proclama: da quando vige il Trattato di Lisbona, nel 2009, i suoi articoli sono pienamente vincolanti, per le istituzioni comuni e gli Stati. Nel libro che ha scritto con l'eurodeputata Sylvie Goulard (La democrazia in Europa), Monti neppure menziona la Carta. Forse non ha orecchie per intendere quel che c'è di realistico (e per nulla comico), nell'ultimo monito di Grillo: "Attenzione alla rabbia degli italiani!". Forse non presentiva, mentre redigeva il libro, il ritorno di Berlusconi e il suo intonso imperio televisivo. Eppure parla chiaro, l'articolo 11 della Carta: "Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche". Niente è stato fatto, in Europa e negli Stati, perché tale legge vivesse, e perché la stabilità evocata da Schulz concernesse lo Stato di diritto accanto ai conti pubblici.

Il silenzio sulla libera stampa non è l'unico peccato di omissione delle autorità europee, nella crisi. Probabilmente era improrogabile, ridurre i debiti pubblici negli Stati del Sud. Ma l'azione disciplinatrice è stata fallimentare da tanti, troppi punti di vista. Non solo perché alimenta recessioni (due, in cinque anni) che aumentano i debiti anziché diminuirli. Ma perché non ha intuito, nella stratificazione dei deficit pubblici, una crisi politica della costruzione europea (una crisi sistemica). Perché l'occhio fissa lo spread, dimentico del nesso fatale tra disoccupazione, miseria, democrazia. Perché senza inquietudine accetta che si riproduca, nell'Unione, un distacco del Nord Europa dal Sud che tristemente echeggia le secessioni della Lega.

L'antieuropeismo che Lega e Grillo hanno captato, e che Berlusconi vuol monopolizzare, è una malattia mortale (una disperazione) che affligge in primis l'Europa, e in subordine le nazioni. È il frutto della sua letale indolenza, della sua mente striminzita, della cocciuta sua tendenza a rinviare la svolta che urge: l'unità politica, la comune gestione dei debiti, la consapevolezza - infine - che il rigore nazionale immiserirà le democrazie fino a sfinirle, se l'Unione non mobiliterà in proprio una crescita che sgravi i bilanci degli Stati.

L'ultimo Consiglio europeo ha toccato uno dei punti più bassi: nessun governo ha respinto la proposta di Van Rompuy, che presiede il Consiglio: la riduzione di 13 miliardi di euro delle comuni risorse (10% in meno) di qui al 2020. L'avviso non poteva essere più chiaro: l'Unione non farà nulla per la crescita, anche se un giorno mutualizzerà parte dei debiti. Di un suo potere impositivo (tassa sulle transazioni finanziarie, carbon tax: ambedue da versare all'Europa, non agli Stati) si è taciuto. Anche se alcune aperture esistono: da qualche settimana si parla di un bilancio specifico per l'euro-zona, quindi di mezzi accresciuti per una solidarietà maggiore fra Stati della moneta unica. Ma la data è incerta, né sappiamo quale Parlamento sovranazionale controllerà il bilancio parallelo.

Non sorprende che l'anti-Europa diventi spirito del tempo, nell'Unione. Che Berlusconi coltivi l'idea di accentuare il caos: condizionando chi governerà, destabilizzando, lucrando su un antieuropeismo popolare oltre che populista. Dilatando risentimenti che reclameranno poi un uomo forte. Un uomo che, come Orbán o i futuri imitatori di Berlusconi, scardinerà le costituzioni ma promettendo in cambio pane, come il Grande Inquisitore di Dostoevskij. È grave che il governo Monti non abbia varato fin dall'inizio un decreto sull'incandidabilità di condannati e corrotti. Che non abbia liberalizzato, dunque liberato, le televisioni. Che abbia trascurato, come la sinistra, la questione del conflitto d'interessi. Magari credeva, come l'Europa prima del 1914, che bastassero buone dottrine economiche, e il prestigio personale di cui godeva nell'economia-mondo, per metter fine alla rabbia dei popoli.

(12 dicembre 2012)

martedì 11 dicembre 2012

Anche la regione Basilicata dice no alle trivelle nel mar jonio.


La costa ionica lucana presenta una elevata valenza ambientale che non può e non deve essere messa a rischio. Con questa motivazione l’assessore all’Ambiente della Regione Basilicata Vilma Mazzocco e il direttore del Dipartimento Donato Viggiano, hanno ribadito il “no” del governo regionale alla concessione di nuovi permessi di ricerca di idrocarburi in mare, incontrando questa mattina i sindaci e gli amministratori dei Comuni di Bernalda, Pisticci, Scanzano Jonico, Policoro, Rotondella e Nova Siri, alla presenza dell’assessore all’Ambiente della Provincia di Matera, Giovanni Rondinone.
Nell’incontro è stata sottolineata la volontà di avviare un’azione comune di forte contrapposizione all’attività di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi nel Mar Ionio. Nello specifico è stato espresso parere negativo per i progetti relativi alle istanze permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in mare denominati “d 73 F.R.-SH” e “d 74 F.R.”- presentati dalla Società Shell E&P S.p.a. e per la richiesta di ripresa del procedimento di V.I.A. proposto dalla Società Appennine Energy S.r.l. per il permesso di ricerca denominato “d 148 D.R.- C.S.”.
“La linea da seguire, più volte indicata dal presidente della Regione Vito De Filippo, è chiara e definita: la Basilicata ha già dato il proprio contributo al bilancio energetico nazionale”. Lo ha detto l’assessore Mazzocco motivando il diniego alla richiesta di nuove concessioni.  “I permessi in atto – ha aggiunto - hanno saturato quella che riteniamo la soglia di sostenibilità di questo tipo di attività per la regione e riteniamo che altri territori debbano giocarsi la partita dello sviluppo puntando su altre chance. Lo sfruttamento degli idrocarburi, pur costituendo una risorsa rilevante del territorio lucano, va inserito nell'ambito di una visione complessiva di programmazione e sviluppo in coerenza con la valorizzazione degli altri beni e delle altre risorse esistenti. La valorizzazione e la protezione dell'ambiente – ha concluso l’esponente della giunta – costituiscono per noi obiettivi primari”.
La posizione espressa dall’assessore Mazzocco e dal direttore Viggiano troverà riscontro formale in una delibera di Giunta che sarà inviata al Ministero dell’Ambiente nell’ambito della procedura di Via nazionale.
Fonte : Basilicatanet

I signori delle rapine.


Negli anni recenti i discorsi sulla disuguaglianza si sono concentrati per lo più sulla distribuzione tra lavoratori, e quindi o sul divario esistente tra i lavoratori più istruiti e quelli meno istruiti o sui redditi in forte rialzo di un pugno di superstar nel campo della finanza e di altri settori. Ma è giunto il tempo di rivalutare una contrapposizione molto più attuale per capire cosa sta succedendo: quella (marxiana) fra capitale e lavoro.

di Paul Krugman, da Repubblica, 11 dicembre 2012

L’economia americana, sotto molti punti di vista, è ancora adesso gravemente depressa. Eppure gli utili societari stanno raggiungendo cifre da record. Come è possibile? Semplice: gli utili si sono impennati come frazione del reddito nazionale, mentre i salari e le altre retribuzioni della manodopera sono in flessione. La torta non sta crescendo come dovrebbe, ma il capitale se la passa bene arraffandone una fetta sempre più grossa, a discapito della manodopera.

Un momento: stiamo forse parlando ancora una volta di capitale in contrapposizione a lavoro? Non è un argomento obsoleto? Un soggetto quasi marxista di cui parlare, passato di moda nella nostra moderna economia dell’informazione? Beh, questo è quanto molti pensavano. er la scorsa generazione i discorsi sull’ineguaglianza non si sono concentrati per lo più sul capitale in contrapposizione a lavoro, ma su questioni di distribuzione tra lavoratori, e quindi o sul divario esistente tra i lavoratori più istruiti e quelli meno istruiti o sui redditi in forte rialzo di un pugno di superstar nel campo della finanza e di altri settori. Questa sì, in effetti, potrebbe essere storia passata.

Più specificatamente, se è vero che i pezzi grossi della finanza stanno ancora agendo da banditi – in parte perché, come ormai sappiamo, alcuni di loro effettivamente lo sono –, il divario retributivo tra i lavoratori che hanno un’istruzione universitaria e quelli che non l’hanno (che si acuì molto in modo particolare tra gli anni Ottanta e i primi Novanta) da allora non è variato granché. In verità, i lavoratori neolaureati avevano redditi statici addirittura prima che la crisi finanziaria colpisse. Sempre più spesso, gli utili stanno aumentando a spese dei lavoratori in genere, compresi i salariati che hanno le qualifiche ritenute adatte a portare al successo nell’economia odierna.

Perché sta accadendo questo? Il meglio che posso dire è che vi sono due spiegazioni plausibili, ed entrambe potrebbero essere vere in parte. La prima è che la tecnologia ha preso una piega che colloca in posizione di netto svantaggio la manodopera. L’altra è che stiamo assistendo agli effetti di un palese aumento del potere dei monopoli. Provate a pensare a queste due ipotesi come a una maggiore importanza conferita ai robot da una parte e ai signori della rapina dall’altra.

Parliamo di robot: è fuor di dubbio che in alcuni settori industriali di alto profilo la tecnologia sta rimpiazzando sempre più lavoratori di tutti i generi o quasi. Per esempio, una delle ragioni per le quali da qualche tempo alcuni processi produttivi di articoli hi-tech stanno tornando negli Stati Uniti è che ormai il componente di maggior valore di un computer, la scheda madre, è fabbricato in pratica da robot, e di conseguenza la manodopera asiatica a prezzi stracciati non costituisce più un motivo valido per produrlo all’estero.

In un libro appena pubblicato e intitolato Race Against the Machine (La corsa contro le macchine), Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee dell’Mit sostengono che la stessa cosa sta avvenendo in molti campi disparati, compresi servizi quali la traduzione e la ricerca legale. Negli esempi da loro addotti in particolare colpisce il fatto che molti posti di lavoro soppressi richiedono alte competenze e sono ben retribuiti. Ne consegue che lo svantaggio della tecnologia non è limitato ai mestieri più umili.

E tuttavia: innovazione e progresso possono danneggiare davvero un gran numero di lavoratori o addirittura i lavoratori in genere? Spesso mi imbatto in affermazioni secondo le quali ciò non può accadere. In verità, invece, può accadere eccome, e illustri economisti sono consapevoli di tale probabilità da almeno due secoli. David Ricardo è un economista dell’inizio del XIX secolo famoso per lo più per la sua teoria del vantaggio comparato, che costituisce uno dei capisaldi del libero commercio. Ma nel medesimo libro del 1817 nel quale Ricardo illustrava quella teoria c’è anche un capitolo su come le nuove tecnologie della Rivoluzione industriale ad alto impiego di capitale di fatto avrebbero potuto peggiorare le condizioni dei lavoratori, quanto meno per un po’. Gli studiosi moderni puntualizzano che le cose in realtà sono andate avanti così per parecchi decenni.

Che dire dei signori della rapina? Di questi tempi non si parla molto del potere dei monopoli. L’applicazione delle leggi anti-trust durante gli anni della presidenza Reagan è stata per lo più abbandonata e da allora non è mai ripresa davvero. Eppure Barry Lynn e Phillip Longman della New America Foundation sostengono – in modo convincente, dal mio punto di vista – che la crescente concentrazione di aziende potrebbe costituire un fattore determinante ai fini della stagnante richiesta di manodopera, dato che le corporation usano il loro potere monopolistico in netta espansione per aumentare i prezzi senza passarne gli utili ai propri dipendenti.

Ignoro in che misura la tecnologia o il monopolio possano spiegare la svalutazione della manodopera, in parte perché si parla molto poco di quello che sta accadendo. Tuttavia, penso che sia corretto affermare che lo spostamento del reddito dalla forza lavoro al capitale non è ancora entrato nel nostro dibattito nazionale.

Quello spostamento, peraltro, è in corso, e ha implicazioni ragguardevoli. Per esempio, vi sono forti pressioni, lautamente finanziate, a favore della riduzione delle aliquote fiscali applicate alle grandi società. È davvero questo che intendiamo lasciare che accada nel momento in cui gli utili sono in forte aumento a detrimento dei lavoratori? E che dire delle pressioni volte a ridurre o abolire del tutto le imposte di successione? Se stiamo per tornare a un mondo nel quale è il capitale finanziario – e non le qualifiche professionali o il livello di istruzione – a determinare il reddito, vogliamo davvero rendere ancora più facile ricevere in eredità la ricchezza?

Come ho premesso, questo dibattito non è ancora iniziato sul serio. In ogni caso, è ora di iniziarlo, prima che i robot e i signori della rapina trasformino la nostra società in qualcosa di completamente irriconoscibile.

(Traduzione di Anna Bissanti) © 2012, The New York Times

(11 dicembre 2012)

Se i poveri pagano l'università ai ricchi



La campagna elettorale è di fatto aperta. La nostra speranza è che l'università sia al centro del dibattito, per le sue implicazioni riguardanti la crescita e l'equità sociale. Il confronto non dovrebbe però essere contaminato da controversie su questioni non controvertibili, perché riguardanti dati di fatto. Una di queste è se sia vero o no che in Italia i poveri pagano l'università ai ricchi. Nei giorni scorsi, Francesco Giavazzi l'ha affermato; Marco Meloni (responsabile Pd per l'università) l'ha messo in dubbio (vedi www.lavoce.it).

Che cosa dicono i dati? Che il finanziamento universitario opera ogni anno un trasferimento ingente, circa 2,5 mld di euro, dalle famiglie con reddito inferiore ai 40.000 euro lordi annui a quelle con reddito superiore. Non si può discutere di diritto allo studio e di finanziamento dell'università se prima non si riconosce questa macroscopica e odiosa ingiustizia.

Le famiglie con un reddito fino a 40.000 euro sono il 93% del totale dei contribuenti e pagano solo il 54% del gettito Irpef, dato che questa è una tassa progressiva (Dipartimento delle finanze). Quindi queste famiglie finanziano attraverso l'Irpef il 54% di quanto lo Stato dà all'università, con un contributo di 4,9 mld di euro. Tuttavia da esse proviene solo un quarto degli studenti universitari italiani, mentre dal 7% di famiglie più ricche vengono i restanti tre quarti (Banca d'Italia). Le famiglie più povere ricevono perciò, sotto forma di istruzione, un quarto di quanto lo Stato spende per gli atenei: circa 2,2 miliardi. La differenza tra quanto pagano e quanto ricevono (2,7 mld) è un regalo alle famiglie più abbienti. È vero quindi che, in proporzione al loro reddito, i più ricchi pagano più Irpef, ma non in misura tale da compensare l'uso maggiore che essi fanno dell'università. Tenendo conto delle altre imposte, che sono sicuramente meno progressive dell'Irpef, l'entità del regalo aumenta.

Cambiano le conclusioni considerando le rette universitarie? No. La loro somma, per legge, non può superare il 20% dei bilanci degli atenei. Inoltre la loro struttura è marcatamente regressiva: da un rapporto di Federconsumatori si desume che, in proporzione al reddito, le rette incidono per il 15,6% sui redditi più bassi, ma solo per il 4,3% su quelli di 40.000 euro, fino a quasi annullarsi a livelli ancora più alti. I ricchi pagano di più, ma non molto; tenendo conto delle rette di iscrizione, il regalo che ricevono dai poveri resta comunque di 2,4 mld. E sarebbe di 2,2 mld anche se le tasse universitarie, rimanendo ai bassi livelli attuali, fossero interamente pagate dai più ricchi.

È un trasferimento inaccettabile, che si perpetua solo perché i più ignorano come stanno realmente le cose. Che possa essere maggiore in Paesi dove l'università è del tutto gratuita non lo rende meno odioso e paradossale.

Una volta che questi fatti siano riconosciuti da tutti, possiamo discutere di come venirne fuori. E qui le prospettive, legittimamente, possono essere diverse. Una, a cui forse aspira Meloni, potrebbe essere che tutti i giovani frequentino l'università, così come già frequentano la scuola dell'obbligo. In questo modo tutti ne fruirebbero in modo uguale ma i ricchi pagherebbero di più per via del prelievo fiscale progressivo, e il paradosso scomparirebbe.

Ma si tratta di una prospettiva realistica, o desiderabile? Certamente vanno rimossi tutti gli ostacoli che scoraggiano i ragazzi poveri e di talento dall'acquisire un'istruzione superiore. La qualificazione «di talento» non è però un inciso retorico, va presa sul serio. Il sistema universitario è la modalità con cui la società trasmette la frontiera più avanzata della conoscenza a chi è meglio in grado di riceverla ed estenderla. È un sistema intrinsecamente elitario, perché si fonda su un'ineliminabile disuguaglianza nelle capacità delle persone. È una disuguaglianza che non deve dipendere dalla ricchezza della famiglia d'origine, e bisogna fare ogni sforzo per rompere questo legame; ma così come non è possibile che tutti vadano alle Olimpiadi, è inevitabile che alcuni siano più di altri in grado di prendere il testimone della conoscenza. Ciò non è in contrasto con la nostra Costituzione (art. 34), dove stabilisce il diritto di «raggiungere i gradi più alti degli studi» per i «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi». Anche questa è una qualificazione importante e spesso trascurata: non per tutti, solo per i capaci e meritevoli.

La scuola è e deve essere per tutti: è lì che si devono davvero creare le pari opportunità. L'università è altra cosa. Chiunque vinca dovrà ripensare al suo finanziamento.

di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese dal Corriere del 10 dicembre 2012

sabato 8 dicembre 2012

IL MIGLIOR DISCORSO DEL MONDO - Presid Josè Mujica - ITA - ENG - ESP

Politica, ritorno al passato


Politica, ritorno al passato
di MICHELE BRAMBILLA, dalla Stampa
In una settimana il centro del dibattito politico si è spostato da Matteo Renzi, 37 anni, a Silvio Berlusconi, 76. Il sindaco di Firenze aveva perso le primarie, ma per mesi aveva tenuto l’attenzione di tutti fissa sul cambiamento, sul rinnovamento. Sul futuro. E anche dopo aver dovuto lasciare a Bersani la candidatura a Palazzo Chigi, Renzi continuava a esserci, pur nel suo silenzio, come una presenza che ti impone di voltare pagina, anche per non far regali al fronte dell’antipolitica. Non era solo il quaranta per cento degli elettori del centrosinistra alle primarie - quelli che lo hanno votato - a farci sperare in una novità: lo stesso Bersani, dichiarando di avere il senso della «cosa comune», aveva garantito che avrebbe portato il partito dentro il secondo decennio del Duemila.

Pochi giorni, e siamo invece risprofondati nel Novecento. Di Renzi non si parla più. L’agenda politica, ma anche ahimè quella dei mercati e della finanza internazionale, sono dettate da un uomo che si era presentato come il «nuovo» diciotto anni fa, quando peraltro aveva già cinquantotto anni, ventuno più del Renzi di oggi.
Nessuno è così ingenuo da pensare che basti la carta d’identità per garantire un miglioramento della classe dirigente. Anzi, la Bibbia dice che il giovane è stolto e necessita della correzione del bastone. Che l’esperienza porti saggezza, lo abbiamo sperimentato in questi ultimi anni grazie al presidente Napolitano, che in politica ha dato il meglio di sé proprio da ottuagenario. Non avessimo avuto al Quirinale un simile inquilino, chissà dove saremmo finiti.

Ma il «vecchio» che sta ritornando da un paio di giorni a questa parte è ben di più di una questione anagrafica. È quel brutto film di cui ci illudevamo di aver visto da un pezzo i titoli di coda. I partiti come questioni personali, la rissa come propaganda politica, gli insulti. Anche chi non ha partecipato alle primarie del centrosinistra non può non ammettere che ben diverso era stato il clima dello «scontro» tra Renzi e Bersani. Avevamo sperato di aver imparato qualcosa dagli Stati Uniti, io mi confronto con te sui programmi e se perdo comunque ti do una mano perché siamo tutti sulla barca.

Come non detto. Torna il clima da guerra civile e quel che è peggio torneremo a discutere di conflitto d’interesse, del ruolo della magistratura (ogni inchiesta o sentenza sarà chiamata, d’ora in poi, «a orologeria»), di pericolo comunista, e così via. Tutte cose di cui l’Italia non ha bisogno. Un anno fa, quando era nato il governo Monti, ci eravamo illusi che questo scenario fosse ormai da consegnare ai libri di storia. Pdl e Pd avevano sospeso le ostilità e tutti eravamo contenti di addormentarci davanti alla televisione quando andava in onda Porta a porta o Ballarò. Sembrava che ciascuno avesse messo da parte i propri interessi e i propri istinti, pur di collaborare con gli ex nemici per il bene del Paese. Pensavamo che il governo Monti, che si reggeva su una tregua fra destra e sinistra, fosse solo il primo momento di una nuova fase che sarebbe continuata dopo la fine della legislatura, con un nuovo esecutivo eletto dal popolo, ma con lo stesso senso di responsabilità.

Il perché dello sconsolante ritorno al passato cui stiamo assistendo è forse da ricercare più nei meandri della mente umana che in quelli della politica. L’angoscia per il tempo che se ne va, la paura di veder spegnere accanto a sé le luci della ribalta, la convinzione di essere ancora il migliore anzi l’unico, la sete di rivincita... Chissà. Cose che appartengono al mistero della psiche. Ma forse ancora più misteriosa è la poco virile accondiscendenza di chi permette la messa in azione, all’indietro, di questa pericolosa macchina del tempo. Di chi non capisce che, assecondando e sottomettendosi ancora una volta, non rende un buon servigio né a se stessi, né al Paese, né alla propria parte politica, e ultimamente neppure al proprio capo.

venerdì 7 dicembre 2012

Venga qui, venga a visitare i nostri bambini devastati dal cancro


Lettera inviata al presidente della repubblica

...Avevo davvero riposto in Lei la mia fiducia, credevo che fosse una persona per bene. Credevo che quei valori, di cui tanto parla, fossero davvero radicati in Lei e fossero il punto di riferimento per ogni sua azione, per ogni sua decisione. Credevo che avrebbe scelto la Vita e non la morte.. E invece ha firmato la nostra condanna.

La condanna di una città sacrificata da anni in nome del profitto più squallido e criminale, abbandonata nelle mani di una famiglia di imprenditori senza scrupoli, plurindagati e pluricondannati e tutt'oggi agli arresti domiciliari.

Come credere ancora nello Stato Italiano? Come credere nella politica, in chi dovrebbe difendere e promuovere il bene comune..e invece ci ha rubato anche il diritto alla Vita?

A Taranto c'è un'ordinanza del sindaco che vieta il pascolo entro un raggio di non meno di 20 km attorno all’area industriale...ma in quei 20 km noi ci viviamo! Vivono i nostri bambini!! Le pecore e le capre sono state uccise...ora lo Stato uccide anche noi...per decreto!!!

Ho bisogno di sapere da Lei, signor presidente, cos'hanno di diverso i bambini di Genova rispetto ai nostri. Perchè lì l'area a caldo è stata CHIUSA, in quanto incompatibile con la città, e la produzione spostata a Taranto? Chi ha compiuto il "miracolo" rendendola "compatibile"?!

Venga qui, venga a visitare i nostri bambini devastati dal cancro (e non solo), li guardi negli occhi e sostenga il loro sguardo, se ci riesce. Dica alle loro mamme che la malattia e la morte del figlio è necessaria altrimenti cala il PIL!!!

Una pagina vergognosa e vigliacca della storia di questa nazione è stata scritta oggi..e porta la sua firma!

Ora le auguro buona notte, presidente..ma non so se e come riuscirà a dormire...e se ci riuscirà allora si preoccupi, perchè temo che ha barattato la sua coscienza col vile denaro.


di Tonia Marsella,Taranto
fonte:  a _sinsitrablogspot.it

giovedì 6 dicembre 2012

La zattera della Medusa



Il centrodestra assomiglia sempre di più alla zattera della Medusa di Gericault. Alla deriva. I naufraghi s’ammazzano l’un con l’altro. Gli elettori, e sono ancora tanti, guardano sgomenti, e non meritano un tale spettacolo. Alle elezioni mancano al massimo quattro mesi. Berlusconi sembra deciso a sfidare il vincitore delle primarie del Pd. Il Cavaliere fu abilissimo nel ’94 a riempire il vuoto della politica dopo Mani Pulite. Oggi quel vuoto lo crea lui con le sue goffaggini e le sue indecisioni. Fu straordinario nell’usare, e controllare, i mezzi di comunicazione. Oggi ne è vittima, anche di chi lo sostiene. Eccezionale nel trasformare le contese elettorali in plebisciti su se stesso. Oggi il plebiscito lo vedrebbe perdente. E Bersani giustamente gongola all’idea di averlo come avversario. A ciò si aggiunge che quel che resta del Pdl fa di fatto, con i propri litigi, campagna elettorale per gli avversari. Incredibile.

Il destino del centrodestra riguarda tutti. Anche quelli che non lo votano. Una domanda di rappresentanza politica, fino a ieri maggioritaria, rischia di non incontrare alle prossime politiche un’offerta adeguata e sufficiente. Chi ha a cuore la solidità di una democrazia non può essere indifferente di fronte al disagio di una parte di elettorato tentata dall’astensione o dal voto di protesta. Anche a sinistra i più avveduti temono un bipolarismo Bersani- Grillo. I moderati di quello schieramento, cattolici per primi, guardano con preoccupazione allo sfaldamento del polo avversario e al suo arroccamento in difesa di Berlusconi, perché ciò finirebbe per spostare ulteriormente verso Vendola e la Cgil il baricentro di un futuro e assai probabile governo a guida Pd.

Berlusconi sembra deciso a non consentire una riforma della legge elettorale per portare in Parlamento fedelissimi, amazzoni e pretoriani. La saggezza dovrebbe indurlo a fare un passo indietro. A garantire un’evoluzione dell’intero movimento— che a lui si richiama e continuerà a richiamarsi— verso il Partito popolare europeo, lasciando perdere tentazioni lepeniste e antieuropee. Monti in Europa, sarà bene ricordarlo, ci andò grazie a lui. Solo così quella che appare, in base ai sondaggi, la prossima opposizione potrà candidarsi autorevolmente a essere alternativa di governo.

Ma qui si affaccia nel centrodestra il discorso più delicato. Se c’è, come crediamo, un gruppo dirigente liberale e democratico all’altezza del compito, ma soprattutto responsabile, deve avere la forza di separare il proprio destino politico dalla deriva solitaria e resistenziale del proprio capo. Appoggiando subito la riforma della legge elettorale. E mostrando coraggio nel non candidare chi è stato condannato in modo definitivo. Un gesto dettato forse più dalla disperazione che dal coraggio, ma assolutamente necessario e non più rinviabile.

Un taglio netto riapre i giochi nell’arco politico che si oppone a Bersani e ai suoi alleati. Riduce la forza di attrazione che la sinistra esercita nei confronti del centro moderato. Rende possibili future collaborazioni su alcuni aspetti dell’agenda Monti e nell’indicazione di candidati, non solo alla premiership, nuovi e più credibili. L’incerta democrazia italiana dell’alternanza ne avrebbe un sicuro beneficio. Così la zattera della Medusa troverebbe finalmente un approdo. E il ventennio berlusconiano passerebbe al vaglio degli storici. Con un’uscita di scena più dignitosa, il giudizio non potrà che essere più articolato e imparziale.

di Ferruccio de Bortoli, dal Corriere

Passato, presente e futuro del Mediterraneo


Il Mediterraneo come esplorazione, sinonimo di scoperta, conoscenza dell’altro, mare come ibridazione e quindi ricchezza. Pubblichiamo la relazione introduttiva di Angelo d'Orsi alla VIII Edizione di FestivalStoria, "Mediterraneo. Mare nostrum?", in programma a Torino e Napoli dal 3 all'8 dicembre 2012 (www.festivalstoria.it - facebook.com/FestivalStoria).

di Angelo d’Orsi, da Micromega

V’è chi (Maurice Aymard) sostiene che c’è addirittura una moda: si parla e si scrive e si rappresenta e si suona il Mediterraneo, anche troppo. Ed è vero; ma ciononostante noi vogliamo correre il rischio di aggiungere altre tessere a questo fascinoso mosaico. E come resistere? Quante vite, quante leggende, quanti traffici, quanta cultura, quanto dolore si sono imbevuti nelle tue acque, ora calme, ora mosse, ora agitate da provocare naufragi, da far affondare navi poderose, che parevano invincibili. Acque dalle quali sono sgorgate civiltà e sono affondati imperi. Quel mare, che i romani chiamarono “nostrum”, avviando una mitologia suggestiva, certo, ma anche per tanti versi pericolosa: basti ricordare i pretesi diritti italiani sulla “quarta sponda”, concretizzatisi nel 1911, nell’invasione delle province ottomane della Tripolitania e Cirenaica non a caso chiamate con la denominazione romana di Lybia. E in fondo l’espressione giornalistica e politica, anzi geopolitica, corrente a lungo in questo ultimo sessantennio, di Italia “portaerei del Mediterraneo” riprende l’essenza di quel mare nostrum, declinandola in termini militari, attribuendo alla Penisola un valore soltanto connesso alla sua collocazione in questo mare, e alla sua particolare conformazione territoriale.

Furono i greci, per primi, a considerare “loro” quello che chiamavano “mare interno”, oltre il quale era “l’Oceano”, ossia un grande mare esterno, un mare d’intorno; in quelle zone in pratica ignote, si agitavano popoli, come formiche o come rane, stando alla famosa espressione di Platone. Per i Greci tuttavia era soprattutto l’area Est, ad essere considerata; in quella zona orientale, del resto, intorno alla Mesopotamia già carica di storia e leggenda, e la stessa Persia con cui pure i greci si scontrarono, ma con cui ampiamente si compenetrarono era nata la civiltà che oggi possiamo chiamare genericamente mediorientale, ossia, in realtà, mediterranea. E ben oltre si guardava, già da parte greca, se è del resto vero come è vero che Alessandro il Macedone si spinse verso la Persia e l’India, desideroso non semplicemente di conquistarle, ma di conoscerle, nel senso complesso di penetrarne i segreti.

Di Mediterraneo si cominciò a parlare nondimeno soltanto nel III secolo, con un semisconosciuto autore di un’opera descrittiva di meraviglie, tale Gaio Giulio Solino, scrittore di una compilazione di meraviglie (i Collectanea rerum memorabilium), basata in realtà su altri autori, a cominciare da Plinio il Vecchio, opera che ebbe fortuna più tardi, in età medievale. Ma era pur sempre un aggettivo che accompagnava il sostantivo Mar: Mar mediterraneum. Passeranno secoli prima che mediterraneo diventi un sostantivo, indicando sì, il mare, ma anche una intera civiltà nata sulle sue coste, e nel retroterra dei Paesi che ad esso fanno riferimento in vario senso.

Quanto alla denominazione romana, fu Giulio Cesare in persona, impegnato nella costruzione del dominio romano, a parlare, nel De Bello Gallico, di mare nostrum: via via che venivano conquistate le terre che vi si affacciavano o che comunque a quel mare facevano riferimento, esso diveniva nostro, appunto. Anche se rimanevano, sconfitti e sottomessi i nemici esterni, da sedare quelli interni, in particolare la pirateria, contro la quale fu decisivo il ruolo di Pompeo, che fece ai pirati una guerra spietata. Fu davvero mare nostrum, allora. E tale rimase per secoli. Un mare controllato dalla potenza di Roma. Eppure, se i romani ebbero il dominio, l’egemonia rimase greca. E gli stessi romani, pure così fieri di essere cives dell’Urbs, riconobbero sempre la superiorità della civiltà dell’Ellade, di cui si considerarono figli e, naturalmente, eredi.
Va ricordato questo punto, particolarmente oggi. Oggi, che la Grecia è diventata il capro espiatorio della crisi finanziaria europea, all’interno di un processo di colpevolizzazione di tutta l’area mediterranea, con una sorta di rovesciamento tra cause ed effetti. Va ricordato e va riflettuto;: e lo faremo ad abundantiam in questa edizione di FESTIVALSTORIA. Nello scorso febbraio, circolavano appelli pro Grecia, quando si ricordava appunto, davanti alla gelida algebra dei numeri da parte dei signori della finanza mondiale, il ruolo storico di quella civiltà straordinaria. Ne avevo sottoscritto qualcuno, chiedendomi comunque a che cosa potessero servire. Forse più che a salvare quel paese (ma da cosa? da se stesso? O piuttosto dalle rapaci mani della “Troika”?), miravano a salvare la nostra anima: quasi che pregassimo un qualche iddio dopo aver consumato il crimine. Perché di questo si è trattato; e del più efferato tra i crimini, l’uccisione della madre. E v’è, in quello che sta accadendo da un anno a questa parte, una sorta di paradossale, involontario richiamo alla tragedia greca: è un dramma degno di Sofocle o di Euripide questa Europa che fa a pezzi e si accinge a sbranare la madre Europa, in nome di se stessa, della sua unità, della moneta unica, della pretesa sua identità “giudaico-cristiana” (una delle tante sciocchezze che ci hanno ammannito in questi anni: e le culture pagane, a cui erano informate tanto la Grecia quanto Roma? E le culture e le religioni orientali? E la cultura islamica, che ha colonizzato ampiamente l’area Sud? E le stesse culture dei tanti popoli “barbari” del Nord?).

L’Europa, insomma, cancella la sua propria scaturigine, elide la matrice da cui è sorta, uccide simbolicamente la madre Grecia, quella che addirittura ha partorito il suo nome, e il mito fondativo: la giovinetta Europa, la bellissima fanciulla rapita da Zeus sulla spiaggia di Tiro (o di Sidone, le due note città libanesi), sotto le spoglie di un bianco toro, che la portò, seduta sulla sua groppa, nel mare Egeo, giungendo fino all’isola di Creta, dove si accoppiò con lei sotto le fronde di un platano. Da loro nacquero tre figli, tra cui Minosse, che di Creta divenne re, e in suo onore, e di sua madre dai grandi occhi (tale il significato del termine, secondo un’etimologia peraltro incerta), fu dato il nome di Europa alle terre a Nord del Mediterraneo. Ma parleremo soprattutto della Grecia come capro espiatorio, a cui la leadership che guida l’Unione sta chiedendo in cambio non soltanto oro – come fece Brenno, il capo dei Galli, nella Roma conquistata e saccheggiata –, bensì il sangue e la dignità di un popolo. Quello greco – oggi – spagnolo, portoghese, italiano, in un domani che è già incombe.

Appunto, sono i popoli mediterranei messi sotto accusa, e tutta l’area prospiciente il grande mare di mezzo, a essere diventata la causa della crisi, invece che la vittima, pur non nascondendo le responsabilità gravissime delle diverse classi dirigenti. Abbiamo voluto dedicare diversi incontri a questo tema più generale, con un taglio interdisciplinare, guardando alla crisi, ai suoi attori, alle sue vittime, ma anche all’indignazione che ne è nata e che se non è in grado di instaurare un gramsciano ordine nuovo, sta provando a delineare una linea di opposizione a politiche il cui rigore sembra essere spaventosamente ingiusto, sia sul piano delle relazioni tra i popoli, sia su quello del rapporto fra gruppi sociali all’interno delle singole nazioni. Abbiamo con ciò voluto quanto meno porre in forse il principio affermato e diffuso dai signori delle banche, i padroni dello Spread, i burocrati impietosi della finanza, che l’area mediterranea sia la colpevole della situazione e come tale vada punita. Abbiamo voluto riprendere una suggestione recentissima di un tedesco, Claus Leggewie, che proprio nei Paesi “a Sud” dell’Europa, nell’area mediterranea, ha visto la sola possibilità di salvezza per il Continente. E un altro tedesco, Ulrich Beck, sostiene da tempo che l’Europa è già fatta anche di non europei, e che l’Europa è uno Stato cosmopolita, e che non ha bisogno di creare altre strutture istituzionali, ma semmai di rafforzare un certo spirito.

Dunque è ancora nostrum, quel mare? E nostrum di chi? Sappiamo che nel corso del tempo esso è stato soprattutto un luogo fisico e virtuale di congiunzione, di contaminazione, di incroci, anche se sovente militari, e decisamente bellici. Incroci che sono stati conflitti, sia quelli interni, tra popoli mediterranei, sia esterni, che hanno cioè usato quelle acque semplicemente come scacchiera militare. È europeo, quel mare? È africano? È mediorientale? Dal Bosforo a Gibilterra, Turchia, Grecia, la contesa isola di Cipro, le tormentate coste del Libano e della Palestina (dove si consuma da troppo tempo la più insopportabile delle ingiustizie), tutto il Nordafrica oggi in subbuglio, Spagna, Francia, e infine, Italia, posta al centro al punto da indurre i romani a parlare di quel mare come di un mare che era interamente loro, e come in effetti, la politica dei consoli e poi dei cesari, riuscì a fare.

E gli arabi? Per gli arabi, quel mare era spazio sociale comune per pescatori, commercianti, viaggiatori e nomadi. Nell’espressione della lingua araba Al-bahr al-abyad al-mutawassit troviamo tutti questi concetti, con un riferimento particolare e specifico alla mediazione. Fino all’emergere dell’Islam e della sua prodigiosa espansione, dal VI al XVI secolo, prevalse il mare greco, latino, bizantino, cristiano... Una espansione quella arabo-islamica che tra conflitti e incontri, sia con la cristianità, sia con civiltà di altra origine, e con altre religioni, compresa quella ebraica, diede un impulso straordinario alla creazione di una koiné mediterranea: euromediterranea, afromediterranea, asiomediterranea. Tre continenti uniti da un solo mare. Che poteva dunque continuare ad essere chiamato “nostro”, da ciascuna delle sue componenti, sia geografiche, sia culturali.

Quel mare che, si sa, è stato Fernand Braudel a raccontare mirabilmente, quasi testimone ex post di una comunità formatasi nel corso di un paio di millenni, e che costituisce lo sfondo della nostra contemporaneità. Scriveva, in quell’opera capitale, vergata in condizioni incredibili, in un campo di detenzione durante la Seconda guerra mondiale:
Che cosa è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma molte civiltà, disseminate le une sulle altre…un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere. E piante.

Sappiamo, certo, che il Mediterraneo ha perso da secoli la sua centralità geopolitica ed economica, e che già nella prima età moderna, nazioni coloniali egemoni come l’Inghilterra e l’Olanda vi penetrarono, per svolgere i loro traffici facendo di esso una fonte primaria di guadagno. Da tempo il Mediterraneo non ha più quel fascino che Braudel e non pochi altri (non solo storici e geografi, ma letterati, teologi, artisti…) prima e dopo di lui ci hanno restituito, nella letteratura, nell’arte, nelle scienze sociali, dalla geografia alla storiografia. Ma esso è pur sempre il più ricco di storia e di fascino di tutti i mari della Terra. Che però, negli ultimi decenni, sembra aver rinunciato completamente alla sua tradizione di centro di incontro (e scontro) di culture, religioni, etnie ed economie, per diventare una frontiera di una Europa fortezza, luogo di respingimento invece che di accoglienza, di rifiuto piuttosto che di accettazione. Di difesa identitaria, invece che di confronto culturale, nel senso più ampio possibile.

Oggi questo grande lago d’acqua salata e pescosa è un confine, un no mans sea, uno spazio di tutti, o di tanti, o è una frontiera? Se il confine è labile, mobile, in qualche modo persino vago, e comunque di significato denotativo, neutro; la frontiera indica piuttosto un limite, una barriera ove si due entità si fronteggiano, e dunque predispone all’affrontamento, e dunque alla chiusura o al contrasto, che può divenire conflitto. L’invalicabilità della frontiera, come mezzo di preservazione del dentro contro il fuori, come pratica identitaria. Del resto né i confini, né le frontiere sono date in natura, che è un tutto che si connette, si segue e si intrica, e né fiumi, né mari, né catene montuose segnano irrevocabilmente divisioni, tutte pronte ad essere superate, anche dalla stessa intraprendenza degli umani, e delle altre specie viventi, non soltanto animali.
Ma allora il Mediterraneo rinvia ai confini o alla frontiera? E i tanti Paesi che ne sono bagnati, sono divisi tra loro da confini, a loro volta? O da frontiere? E in tal caso, il Mediterraneo è strumento di collegamento, connessione e contiguità non solo geograficamente, ma da molti altri punti di vista, o piuttosto è una frontiera? Ma in tal caso chi si fronteggia sul mare di mezzo? Non più i mori e i cristiani, i popoli del Nord e quelli del Sud, e nemmeno invincibili armate inglesi e spagnole… V’è ancora il contrasto Est/Ovest, o è stato sostituito del tutto da quello Nord/Sud? E quale rapporto passa tra lo spazio europeo e quello mediterraneo? È uno spazio che si integra, o ci prova, oppure indica una doppia alterità, una frontiera che non vuole saperne di diventare aperta. E questo non da oggi, come ricorda Maurice Aymard evocando le resistenze delle stesse classi dirigenti meridionali: noi vogliamo essere europei, non mediterranei, in buona sostanza.

A lungo si è pensato al Mediterraneo come mare dell’Europa, sua dotazione, quando addirittura non “confine” d’Europa; ma ora forse dobbiamo ripensarlo, ma nello stesso tempo si direbbe che una feroce geopolitica lo stia relegando a zona di separazione, di potenziale conflitto, economico, militare, culturale, nel senso antropologico, religioni comprese. L’Europa diventata fortezza sta guardando e considerando il mare culla delle civiltà, ormai soltanto come frontiera; e frontiera da rendere invalicabile. Più aumentano i bisogni di incontro, più siamo disposti – noi europei – ad alzare steccati, muri, armare pattuglie di sorveglianza, istigare all’odio verso “quelli là”, incitare a sparare sui loro barconi.

Il Mediterraneo ormai ci appare soprattutto come una scacchiera di acque in cui nugoli di profughi, sospinti da guerre, carestie, o semplicemente da una fame antica, tentano, sfidando la sorte (che spesso infatti non perdona), di raggiungere dal Nordafrica e dal Medio Oriente, la mitizzata Europa, sognando non un futuro migliore, bensì soltanto un futuro, una qualsiasi prospettiva di sopravvivenza.

Il risultato? Un aggravamento costante della legislazione dei Paesi europei che si affacciano su questo mare ai danni dei migranti, una politica che si riduce ad azioni di guerra contro i barconi malconci di questi disperati, dai “respingimenti” agli speronamenti: i risultati sono altra disperazione; e morte. Mare di morte, con i suoi quasi ventimila cadaveri nella generale assoluta indifferenza: tanto fra gli abitanti dei Paesi del Nord, tra i quali non mancano coloro che se ne rallegrano addirittura (a cominciare da certi leader politici e commentatori), quanto quelli del Sud, che rassegnati piegano la testa, davanti a quei loro fratelli caduti nel tentativo di raggiungere il sogno. Ma quel Sud, ossia il Maghreb, oggi si sta agitando: finora gli esiti delle cosiddette “rivoluzioni” ancora in corso non sembrano esaltanti; anzi: forse hanno prodotto risultati positivi per qualche aspetto, ma sovente hanno peggiorato la qualità della vita della gran massa di quelle popolazioni, senza raggiungere la conclamata “democrazia” (naturalmente la nostra democrazia, che in realtà non se la passa tanto bene). Una pretesa tanto più bizzarra, davanti ai segnali di tracollo del nostro sistema. Che rischia di affondare proprio come i barconi dei migranti nelle rotte della speranza che si tramuta in disperazione. Le immagini dei cadaveri sulla battigia non sono frequenti perché i morti vengono gettati nelle acque del mare; ben più ricorrenti sono quelle dei volti nei quali si mescolano paura e gioia, paura di quel che potrà essere il futuro, ma gioia per esser giunti provati, affamati e disidratati alla meta, che quasi sempre è solo una tappa, e non il posteggio finale.

Percorreremo le vecchie e nuove rotte dei disperati del mare; decifrando le novità, le frontiere e le barriere erette contro di loro, costretti a sfidare la sorte ogni volta in modo più pericoloso e con minori possibilità di riuscita. Quel mare che cosa sta diventando? Proveremo anche a disegnare le mappe dei porti, le loro trasformazioni nel corso dei millenni con l’ausilio di studiosi, di testi letterari e di immagini. Porti, vuol dire anche marinai: uomini di carne ed ossa che oggi patiscono una delle forme peggiori dello sfruttamento, condannati a una sorta di nuova schiavitù, esposti anch’essi a rischi e a un destino senza certezze. Sono i Marinai perduti di cui aveva già parlato un autore che ci è caro, Jean Claude Izzo, un marsigliese di origine italiana: tipico autore mediterraneo, anzi uno dei più dolenti e affettuosi interpreti della mediterraneità.

Marinai, pirati di ieri e di oggi, “scafisti”; il Mediterraneo è anche un mare criminale, tra il Kosovo e la Sicilia, la Calabria e la Tunisia… Ne discuteremo qui, convinti dei nessi che intercorrono tra orientamenti economici, investimenti industriali (nelle armi), scelte politiche, povertà antiche e nuove, oppressione, repressione, e il gran proliferare di forme diverse mutevoli di criminalità. E il rapporto tra i bisogni dei migranti e lo sfruttamento che ne fa con grande cinismo la criminalità, è una chiave di volta ineludibile per capire qualcosa di ciò che accade dentro o intorno al mare di mezzo. Grandi organizzazioni o piccole imprese gestiscono il traffico di esseri umani, che investono risparmi di una vita nel tentativo di raggiungere un luogo dove quella vita sia davvero tale.

Noi siamo soliti guardare a costoro come “quelli che arrivano”, invasori dei nostri spazi, preoccupandoci di salvaguardarne la “natura”, timorosi di inquinamenti e contaminazioni; siamo convinti, a priori, che “loro”, quelli che riescono a farcela, ad oltrepassare il mare, siano coloro che guadagnano, e noi quelli che perdono; forse dovremmo provare a guardare dall’altra sponda del mare, a guardare con i loro occhi, con gli occhi di chi in primo luogo deve affrontare il rischio di un viaggio che può essere senza ritorno, ossia che ti conduce a morte, ma che può avere anche il rischio di un ritorno non desiderato, il rientro forzato nei luoghi dai quali sei fuggito tentando di porti in salvo, con la tua famiglia e le tue povere cose. Soprattutto non ci rendiamo conto di che cosa sia la ferita dell’esilio, il trauma dell’abbandono, la tragedia dell’esodo. Oggi il Mediterraneo sta sprecando i suoi millenni di bagaglio storico, riducendosi ad una sorta di enorme vasca mortifera, un catino di speranze frustrate, di immani sofferenze, di corpi che nessuna pietà può onorare. Un mare di morte, in sostanza. È questo dunque ancora il mare nostrum?

E le rivoluzioni che hanno scosso il Nordafrica e il Vicino Oriente sono parte di questo medesimo processo. Al di là delle cause interne, e al di là delle pesanti intromissioni di potenze esterne, quel movimento di popoli è anche un richiamo alle responsabilità dell’Europa ristretta nelle sue mura fortificate, con il mare Mediterraneo trasformato in vallo protettivo. Mancano i coccodrilli, ma non ce n’è bisogno, in fondo: i migranti muoiono nella traversata e se toccano terra, perdono dignità nei campi di internamento, in attesa di essere rimandati indietro o di un’evasione che li disperderà tra le campagne di Rosarno, i macelli del Belgio, le buie strade della periferia di grandi centri, dove vendere il proprio corpo: sono i nuovi schiavi senza catene.

Erano mediterranei nell’agosto 1991 quei disperati che attraversarono l’Adriatico, per giungere dalle coste di un’Albania appena liberatasi di uno stolto tiranno (per finire poi nelle spire di criminalità mafiosa e malaffare) a quelle degli italiani brava gente. La nave Vlora, fu il primo “barcone” di disperati e segnò l’inizio di una tragica epopea. L’Italia, Paese storicamente di emigranti, con quei bastimenti che partivano “pe’ terr’ assai luntane…”, era divenuta ufficialmente, di colpo, terra d’immigrazione. Quegli uomini (circa 20.000 perlopiù giovani) ricordavano, e aggravavano il ricordo, di carichi umani che le difficoltà o l’impossibilità della sopravvivenza in patria, spingevano lontano, ben oltre le Colonne d’Ercole. Erano campani, veneti, calabresi, siciliani, piemontesi, che piangevano, agitando bianchi fazzoletti, accalcati sul ponte, all’allontanarsi della nave dalla banchina, e piangevano e si abbracciavano quando, un mese dopo, scorgendo spuntare tra le nebbie dell’alba la Statua della Libertà o qualche indizio di terraferma. Prevalse, allora, lo spirito dell’accoglienza: per di più quei disgraziati fuggivano dal “comunismo”, il “dio che aveva fallito”, e dunque godevano di una certa simpatia (Montanelli scrisse addirittura un’Ode per i nostri fratelli speciali). Il crollo del Muro era avvenuto il 9 novembre 1989, mentre la dissoluzione dell’Urss era imminente. Era cominciato il ventennio dei miracoli, quello che avrebbe dovuto portare pace, serenità e benessere nel mondo; le cose avevano preso un’altra piega, con la Guerra del Golfo, la prima di una serie infinita. Cessato lo scontro Est-Ovest, si definiva il contrasto Nord-Sud. Il contrasto di cui il Mediterraneo divenne l’epicentro, e il luogo idoneo, per così dire, per un redde rationem.

Ma in quel tempo ormai remoto, l’Italia fu travolta da una tempesta politica: crollo della Prima Repubblica, autodissoluzione dei due partiti egemoni, trionfo dell’“antipolitica”. Gli immigrati si moltiplicarono, e la nostra economia si modellò su manodopera a basso costo, non garantita, per tutta una serie di lavori dai quali i nostri connazionali rifuggivano: dalla raccolta della frutta alla pulizia delle strade o delle case. Le scuole in declino videro rialzare le iscrizioni grazie a bimbi neri, gialli, caffellatte, o biondo-pallido provenienti dall’Est. I migranti furono presto italiani a tutti gli effetti, tranne che per la legge. E con l’ascesa al potere di una forza politica che pure esprimeva gli interessi di zone del Paese dove più alto era il bisogno di immigrati, la politica dell’accoglienza divenne politica del respingimento. Si disegnarono norme antigiuridiche (mentre si alimentava la sindrome sicuritaria) che più volte incorsero in sanzioni dell’Unione Europea; i Centri di accoglienza divennero Centri di detenzione, dove ogni legge fu bandita, e a uomini in divisa fu concesso il permesso di sfogare le proprie frustrazioni contro quelle che erano considerate “non persone”. Ed erano semplicemente, appunto, i fratelli di un’altra sponda; geograficamente per quanto concerne un Paese come l’Albania, ancora a Est, sul mero piano geografico, ma pieno Sud dal punto di vista socioeconomico. E in ogni caso era sempre una storia che faceva centro, appunto, sul Mediterraneo. Una storia che invano cerchiamo di trasformare in pratica di polizia, e invece è bisognosa di robuste pratiche sociali, di cultura, di informazione, di pedagogia di massa. Una educazione innanzi tutto linguistica. Si pensi a come specialmente in Italia è cambiato il senso profondo della parola “clandestino”. In Italia che ha appunto tentato di introdurre il reato di clandestinità, un vero e proprio mostro giuridico.

Come ho detto, attenzione particolare sarà riservata alla Grecia, sia quella remota, la Madre Grecia d’Europa (verso la quale oggi i Paesi dell’Unione non sembrano essere molto riconoscenti), sia quella di oggi, appunto, strangolata dai debiti, e sul punto della guerra civile, o forse già in piena guerra civile, con una emersione di gruppi neonazisti che stanno lanciando terribili segnali al resto del Continente. E inquieta, come ci racconteranno alcuni dei nostri ospiti, con parole e filmati, la connivenza tra forze dell’ordine e il partito neonazista di Alba Dorata. Ancor più inquieta il fatto che anche la Grecia, terra di emigranti stia applicando, sospinta da pulsioni xenofobe, una ideologia e una pratica operativa inumana verso gli altri. Quelli che vengono da fuori. E non troviamo particolari differenze tra i partiti al governo e i nazisti per ora all’opposizione, se non nelle pratiche operative, che peraltro un uso violento della legge da parte delle forze di polizia tende a cancellare.
Ma nel Festival, naturalmente, si parla del passato, delle sue diverse epoche, e non soltanto dei tempi presente: accanto ai Greci della classicità, egizi, romani, bizantini, arabi, in situazioni belliche e di pace, ma si guarda altresì verso le piazze e i mercati, assaggiando il pane e la pasta e sorseggiando il vino: tre elementi essenziali, e suggestivi, non solo della cucina mediterranea, ma della mediterraneità nel senso più ampio e generale. Altrettante vie per evocare quello che questo grande mare, questa enorme area geografica e sociale e culturale era e può ancora essere: luogo di incontri, di formazione di civiltà, di scambi commerciali, di ibridazioni, anche di scontri, dai quali però sempre nacquero altre civiltà o si svilupparono quelle esistenti. Le guerre di religione finirono, ma sono riemerse dopo il crollo del Muro, quando con la favola della “fine della storia” ci fecero credere che eravamo entrati nell’età felice di un mondo senza conflitti. E poco dopo qualcuno, della stessa scuola, in fondo, giunse a teorizzare il clash of civilizations, stabilendo anche, o meglio, ancora una volta, chi fossero i “buoni” e chi i “cattivi”. Ne stiamo pagando ancora le conseguenze.

Tra evo antico, Medioevo, modernità e contemporaneità, il Mediterraneo, luogo privilegiato del passaggio da un’età all’altra, fu sempre uno spazio comune (anche quando i Greci e poi i Romani lo considerarono loro), dopo il crollo del Muro nel 1989, ha visto il riemergere delle guerre di religione, e di conflitti che erano stati dichiarati finiti per sempre, con un ottimismo insulso. E tutto questo oggi continua. Questa felice realtà multiversa sembra aver rinunciato alla sua tradizione di centro di incontro (e scontro, ma sempre foriero di sviluppi importanti, quasi sempre positivi) di culture, religioni, economie, per diventare il vallo di una Europa fortezza. Oggi, esso è una barriera, e un cimitero, il più grande di tutti i cimiteri, con i suoi ventimila cadaveri adagiati sui fondali. I migranti – i “disperati del mare” – che nel corso dello scorso ventennio, non ce l’hanno fatta. E il cui numero cresce di anno in anno.

Al Mediterraneo come esplorazione, sinonimo di scoperta, conoscenza dell’altro, mare come ibridazione e quindi ricchezza, si sostituito un concetto divisorio e discriminatorio, escludente e respingente una frontiera o addirittura una barriera d’acqua. Mobile, fluida e sterminata dalla quale è difficile uscire vivi. Nel corso del 2011 sono morte in questo mare oltre 1500 persone; nel ventennio alle nostre spalle le vittime sono tra 18 e 20.000. Sono dati che vengono non dagli Stati pure coinvolti, in senso attivo o passivo, in questa strage degli innocenti: ma da associazioni private come la Caritas, Fortresse Europe, MigrEurope.

Qualcuno potrebbe osservare, con malizia, che FESTIVALSTORIA non si limita a ricostruire, e raccontare, ma pretende di dare un “messaggio”: ebbene, sì! Il messaggio intendiamo darlo, ogni volta, fin dalla scelta del tema. In questo caso il messaggio è chiaro a tutti, credo: è un messaggio che ci parla della importanza e della necessità dell’incontro e non dello scontro, della comunicazione e dello scambio, non della chiusura e dell’isolamento. Ma lo scopo fondamentale di questa manifestazione è altro, ed è più largo e generale. Lo richiamo ad ogni edizione, e lo farò anche stavolta, citando Etienne Balibar: «Parlare di cittadinanza imperfetta significa dire soprattutto che la cittadinanza è una pratica e un processo, piuttosto che una forma stabile. Che essa è sempre “in divenire”». Ebbene noi siamo convinti che per far progredire la cittadinanza, portare avanti questo processo in senso positivo, la storia abbia un ruolo essenziale. Che non si possa essere cittadini e cittadine attivi e responsabili senza la conoscenza storica, e che solo essa sia in grado di fornire alle persone gli strumenti di decrittazione del presente, cogliendo le continuità e le discontinuità con i fatti, le parole, i pensieri del passato. Se la storia è maestra, e gli uomini sono cattivi allievi, tocca forse innanzi tutto alla comunità degli studi farsi carico del problema, e lo potrà fare solo nella misura in cui sia disponibile a fuoruscire dai luoghi canonici, dalle biblioteche e dalle aule universitarie, dai laboratori di ricerca e dalle sale d’archivio; se sia disponibile a portare “la storia in piazza”, e a felicemente contaminarsi con la piazza, appunto.

Io personalmente ci provo sempre, e invito i colleghi, gli allievi, i miei sodali culturali a farlo a loro volta. Ho sempre coinvolto in ciascuna delle innumerevoli iniziative cui ho dato vita nel corso degli anni, studiosi di nome e studiosi in formazione, ma anche donne e uomini che non fanno della ricerca archivistica e bibliografica e dell’insegnamento il loro mestiere principale. Sono convinto che da loro, gli accademici (e, aggiungo, i politici di professione) abbiano tanto da apprendere. Lungi da me il desiderio di fare una contrapposizione generazionale, ma sta di fatto che queste donne e uomini sono dei giovani, di età che va dai 25 ai 40, circa. Giovani o ex giovani. Tutti immersi nel gorgo della precarietà. Eppure entusiasti, competenti, desiderosi non solo di conoscere ma di socializzare le loro conoscenze. Sono fotografi, cineasti, fotogiornalisti, scrittori, reporter, musicisti, attori, scienziati sociali, letterati. Sono la generazione Schengen; parlano e scrivono in almeno 4 lingue, si muovono con ogni mezzo tra Europa, Mediterraneo, e continenti “extraeuropei”, imparando a rispettare le culture degli altri; si nutrono delle letture più varie, dai classici al giornalismo contemporaneo; si gettano temerariamente a capofitto in imprese e progetti, si recano in luoghi impervi, in zone di guerra, quasi sempre senza copertura di un committente; vanno allo sbaraglio, pagando di tasca propria, e solo talora riescono a “piazzare” i loro prodotti, e ottengono qualche notorietà. Ma è grazie a loro, al loro lavoro nascosto, all’impegno di questi sconosciuti al grande pubblico, che noi possiamo essere informati su tanti aspetti, spesso i più tragici o disgustosi della contemporaneità. Altro che ragazzi choosy, come ha detto una ministro torinese, recentemente in uno dei tanti infortuni diciamo espressivi in cui è incappata (non è la sola, del resto!); o come ha invece solo pochi giorni fa ha dichiarato un’altra donna ministro, stavolta spagnola, che ha spiegato la fuga dei cervelli in termini di amore per l’avventura…

Grazie anche a loro, uno studioso professionale aduso più all’incontro con libri che agli incontri con esseri umani in carne ed ossa, può fare un vero e proprio salto di qualità, e restituire alla storia quel compito politico, quell’“ufficio civile” già teorizzato da Benedetto Croce e oggi troppo sovente dimenticato, nel più generale silenzio degli intellettuali (per servirsi della fortunata formula di Asor Rosa).

Mettendo insieme generazioni diverse, competenze diverse, provenienze diverse, vogliamo col Festival, anche quest’anno, tentare di eccitare quel bisogno di sapere che è nel cuore della pratica storiografica, quando non la si concepisca come mera erudizione, o peggio, come puro accumulo di dati e date da sfoggiare in ogni occasione, quasi per farne una barriera tra sé e gli altri. Così scriveva un giovane studente universitario nella Torino del 1916. Si chiamava Antonio Gramsci, che invitava a elaborare un altro tipo di cultura, fondata sulla responsabilità, e sull’autodisciplina, sulla coscienza del proprio posto nel mondo, dei propri diritti e dei propri doveri. Era una esortazione a una cultura autentica, insomma, capace di costruire una città migliore, la città futura. È quello che cerchiamo di fare noi, con la modestia delle nostre capacità e la povertà dei nostri mezzi: dare un aiuto alla costruzione di una città migliore.

(5 dicembre 2012)

mercoledì 5 dicembre 2012

Oltre duemila bambini cercano famiglia


Oltre duemila bambini cercano famiglia
L’allarme di Aibi: “Non lasciamoli soli”


Domani parte la campagna
per sensibilizzare l’opinione pubblica sul gran numero di minori adottabili in attesa di genitori:
Dove sono? Chi sono?
di FLAVIA AMABILE, dalla Stampa

Ci sono circa 2300 minori adottabili oggi in Italia . Perché non sono ancora stati adottati? Dove sono?Chi sono? A queste domande cercherà di dare alcune risposte l’Ai.bi. che domani lancerà la campagna “Non lasciamoli soli”
Secondo i dati riportati nel Quaderno 19 Ricerca Sociale sui minori fuori famiglia l’89% di questi minori è in attesa di adozione (2.052) lo 11% arrivano da precedente adozione fallita (235).

“Perché Maria e Carlo, lei 46 anni e lui 52, sono partiti da due giorni per il Brasile per adottare un minore di 10 anni? Possibile che almeno in una delle banche dati dei 29 Tribunali dei Minori italiani non vi fosse un bambino adottabile di quell’età? - si chiede l’associazione in una nota - Questo è quanto, fino ad oggi, si è comunemente pensato, prima che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti, rendesse noto il 22 Novembre “Il rapporto sulle bambine e bambini temporaneamente fuori della famiglia di origine al 31.12.2010. A quella data, fra i 29.309 minori ospiti delle comunità educative o accolti dalle famiglie affidatarie vi erano ben 2.287 minori che avrebbero potuto essere adottati, di cui 235 provenienti da un precedente fallimento adottivo. Perché dunque Maria e Carlo non sono riusciti ad adottare uno di questi bambini? Possibile che tutti avessero un’ età superiore ai 10 anni?

Il Rapporto degli Innocenti al riguardo è illuminante: l’11% dei minori fuori famiglia ospiti delle comunità educative, ha una età compresa fra 0 e 5 anni, mentre il 17% fra 6 e10 anni. Pertanto fatte le debite proporzioni (e comprendendo anche i minori adottabili accolti da famiglie affidatarie) i minori adottabili in Italia, con meno di 10 anni, sarebbero circa 700! Probabilmente, altro luogo comune circa i minori adottabili residenti in Italia, sarebbero bambini gravemente disabili o affetti da particolari patologie. Anche, in questo caso, il Rapporto fa giustizia: “Poco meno di un bambino su 10 presenta una qualche forma di disabilità certificata. Nel dettaglio il 7% presenta una disabilità psichica, poco più del 2% una disabilità plurima, poco più dell’1% una disabilità fisica e lo 0,4 % una disabilità sensoriale”.” Quindi solo il 10% dei minori adottabili ha una qualche forma di disabilità, cioè nemmeno 230 bambini!

Il problema - sottolinea l’Associazione - è che nessuno sa nulla di questi 2300 bambini perché non esiste una banca dati sui minori nonostante fosse prevista nella legge 149 del 2001. L’Ai.bi ha anche fatto ricorso al Tar del Lazio e fatto condannare il Ministero di Giustizia alla creazione e messa in opera della banca dati sui minori entro il 31 dicembre. Finora non ce n’è traccia ma Marco Griffini, presidnte dell’Ai.bi. si dice fiducioso: “Finalmente per questi 2.300 bambini si apriranno le porte delle speranza. Chiediamo alle famiglie italiane di non lasciarci soli in questa battaglia”. Si sa poi che i 14.781 minori in comunità educative costano 6 volte di più di un minore in affido: 79 € al giorno contro 13€ .Quindi per un totale annuo di 420 milioni contro i 71 dell’affido. Il calcolo - sostiene l’Ai.bi - viene fatto considerando solo il servizio di collocamento. Il risparmio sarebbe di quasi 350 milioni da re-investire in altri servizi per rafforzare l’affido.

Ma non sono gli unici dati raccolti dall’associazione.
- A fronte di una diminuzione di quasi 1.400 minori fuori famiglia fra il 2008 e il 2010 le percentuali di distribuzione fra affido e presidi è pressoché invariata. il dato è stabile o meglio fermo, non c’è stata alcuna crescita. Anzi proprio per questa ragione e considerando i 700 casi in uscita possiamo affermare che abbiano perso queste 700 famiglie che non si sono re-investite nell’affido.
- L’affido fa paura? Affidi troppo lunghi (il 55.9% ex dati 2008 va ben oltre i 2 anni), affidi difficili: il 40% dei bimbi fuori famiglia arriva da altri percorsi di protezione, insomma ha una carriera alle spalle nel sistema di protezione all’infanzia.
- In tutta Italia solo nel 4% dei casi il Servizio Affido è completamente dedicato e fornito da privati in convenzione. Il 41% dal pubblico in maniera dedicata e ben il 55% in maniera non dedicata, ma è un servizio incluso in altri servizi (non specificato se pubblico o privato, ma plausibile si riferiscano agli apparati dei SS generici.
- Il crollo delle richieste dell’adozione internazionale : 6000 (2006) a 3000( 2011). Dopo anni caratterizzati da una tendenza positiva, a partire dal 2006 le idoneità all’adozione internazionale dichiarate dai Tribunali per i minorenni sono drasticamente diminuite: da 6.273 nel 2006 a 3.179 nel 2011. Rapporto CAI Adozioni Internazionali 2011. Il motivo è legato ai costi dell’adozione internazionale e la crisi economica ma non solo, c’è una generale sfiducia nelle adozioni internazionali perché si è creata una cultura negativa intorno all’adozione perché le procedure sono complicate e troppo lunghe, le coppie disponibili ad accogliere un bambino abbandonato non vengono considerate come una preziosa risorsa. Se il calo continuasse secondo il trend evidenziato, si assisterebbe in breve alla fine delle adozioni internazionali, con un numero ridottissimo di adozioni già a partire dal 2020. Eppure, l’abbandono dei minori è in crescita: dai 145 milioni di bambini abbandonati nel 2004 ai 168 milioni del 2009 secondo le stime dell’Unicef.
Perché non dare loro delle famiglie?

L’Aibi ha lanciato l’inziativa “Non lasciamoli soli”. Si può partecipare donando due euro al 45505

Quelle slot machine che entrano nelle case con l'ok dello Stato


PER ACCEDERE BASTANO CODICE FISCALE E CARTA DI CREDITO
Quelle slot machine che entrano
nelle case con l'ok dello Stato
Mille nuovi giochi autorizzati online

Forse è solo un esempio in più di un'Italia in cui si predica in un senso di marcia e si razzola nell'altro. È il Paese in cui i partiti della maggioranza chiedono liberalizzazioni, ma bloccano le gare sulle concessioni demaniali. È l'economia dalla quale tutti dicono che lo Stato deve ritirarsi, mentre la Cassa depositi e prestiti (controllata dal Tesoro) moltiplica le sue iniziative a sostegno delle imprese. Va dunque capito Luigi Magistro, nuovo direttore generale dei Monopoli dello Stato, se per un attimo è parso applicare lo stesso doppio senso di marcia anche a oggetti banali come le slot machine . Quegli strani ingranaggi si stanno forse ritirando dai bar sotto casa o dalle sale Bingo di quartiere, a tutela dei cittadini, ma hanno appena fatto il loro ingresso dalla porta principale in un posto che conosciamo anche meglio: casa nostra (e il nostro smartphone ).

Aveva detto appena una settimana fa Magistro in un'intervista al Corriere : sulle slot machine «dovremo intensificare i controlli, ma anche ripianificare la collocazione, evitandone la presenza vicino alle scuole, ai luoghi di culto, agli ospedali»; semmai, ha aggiunto Magistro, bisognerà «concentrare la presenza nel territorio» e «limitare al massimo l'introduzione di nuovi giochi».

Detto fatto. È appena asciutto l'inchiostro su quelle frasi, che dall'altro ieri le slot machine sono entrate nelle case (benché Magistro avesse dimenticato di dirlo). È la sorpresa di Natale: da lunedì, più di mille nuovi giochi di modello slot sono legalmente «online». Basta introdurre codice fiscale e numero di carta di credito, quindi giocare sul computer dal sofà in soggiorno. Sarà forse lontano dagli ospedali e dalle scuole, dalle chiese, dalle sinagoghe o dalle nuove moschee, come sancisce il decreto voluto dal ministro della Salute Renato Balduzzi per difendere i più vulnerabili. Ma è in tinello a portata dei figli, dei nipoti, dei vecchi genitori e dei cassaintegrati rimasti a casa tutto il giorno.

Secondo i Monopoli dello Stato, non è che l'applicazione di una legge di due anni fa. Altri tempi. Nel frattempo però né l'agenzia né il ministero del Tesoro, che la controlla, hanno rinunciato a distribuire 50 nuove concessioni per le slot sul web. In fondo è solo il prosieguo di un aumento dell'offerta di gioco d'azzardo (legale) che ha sprigionato tassi di crescita cinesi in un Paese che, per il resto, vive una decrescita del Pil fra le più rapide al mondo. Nelle scommesse legali gli italiani hanno speso 15,4 miliardi di euro nel 2003 e 79,8 miliardi nel 2011. È un incremento del 52% l'anno, per un fatturato che vale il 5% del Pil e mette il settore fra le prime industrie del Paese. In base ai dati dei Monopoli, in Italia la spesa media in scommesse per abitante maggiorenne è stata di 1.586 euro nel 2011: il 13,5% del reddito. È ormai una delle grandi voci di spesa degli italiani, che nel frattempo tirano la cinghia su tutto il resto. Ogni euro in più speso in scommesse, spesso, è un euro in meno in acquisti di prodotti utili di imprese italiane rimaste oggi senza mercato nel Paese.

Ma per i conti dello Stato, si sa, è una manna. Le concessioni agli impresari del gioco d'azzardo fruttano circa 8 miliardi l'anno all'Erario, a cui si aggiungono le tasse sulle vincite. In totale si tratta di entrate che riducono il deficit di quasi l'1% del Pil ogni anno. Il problema è che nel 2012, per la prima volta, la crescita delle scommesse sta frenando: saliranno al più del due per cento, mentre le entrate erariali sono per la prima volta in calo di 500 milioni.

Facile dunque sospettare che le nuove slot online servano (anche) a incrementare i flussi di cassa per lo Stato. Non solo a sfidare le piattaforme offshore, come si dice. Come fossero queste le riforme strutturali per risanare l'Italia.

di Federico Fubini, dal Corriere

lunedì 3 dicembre 2012

La casa vuota dei moderati


BERLUSCONI E I RESTI DEL PDL
La casa vuota dei moderati
Diciotto anni fa Silvio Berlusconi ebbe il merito di comprendere che la crisi della Democrazia cristiana e dei socialisti avrebbe privato molti italiani delle due case politiche con cui avevano una certa tradizionale familiarità. Gli orfani non avrebbero saputo per chi votare e il vuoto creato dalla scomparsa dei due partiti avrebbe regalato alle sinistre una vittoria sproporzionatamente superiore al reale seguito di cui godevano nel Paese. Berlusconi esagerò la prospettiva di una minaccia comunista, ma la creazione di Forza Italia ebbe l'effetto di riequilibrare il sistema politico e di offrire agli italiani la possibilità di una scelta. Capimmo che il fondatore di Mediaset aveva fatto la cosa giusta quando constatammo che una parte importante della sinistra aveva deciso di imitarlo. La scelta di Romano Prodi fu un omaggio indiretto alla iniziativa politica di Berlusconi. Molti conservatori liberali capirono che la nuova casa dei moderati era stata costruita dall'uomo sbagliato e che il conflitto d'interessi del costruttore, con le sue numerose ricadute giudiziarie, avrebbe acceso un'ipoteca sul futuro del Paese. Ma la logica imposta dalle circostanze non è necessariamente la migliore. L'iniziativa fu di Berlusconi e il merito, al di là degli errori e delle omissioni dei suoi governi, è certamente suo.

Oggi, tuttavia, Berlusconi sta facendo esattamente l'opposto di ciò che aveva fatto nel 1994. Anziché prodigarsi per la sopravvivenza della sua creatura, non sembra avere altra stella polare fuorché se stesso. Non si chiede che cosa possa giovare al Pdl per conservare credibilità agli occhi degli elettori moderati. Si chiede, passando continuamente da una tattica all'altra, che cosa convenga maggiormente alla sua persona e alla sua immagine. Recitare la parte del padre nobile? Riesumare Forza Italia? Sostenere Angelino Alfano, segretario del partito, o congedarlo? Attaccare Mario Monti o indicarlo al Paese come il suo erede e successore? Sostenere l'agenda Monti o diventare una sorta di Grillo in doppio petto, pronto a sfruttare tutti i malumori e i rancori della società nazionale? Assorbito nella contemplazione di se stesso Berlusconi non si accorge che la sinistra, nel frattempo, ha aperto le finestre della sua casa, ha indetto una sorta di pubblico concorso per la sua leadership, è diventata molto più credibile di quanto fosse negli scorsi mesi. Per uno straordinario rovesciamento dei ruoli Berlusconi sta creando il vuoto che diciotto anni fa era riuscito a riempire. Per chi voteranno nella prossima primavera i conservatori liberali e i moderati?

Le primarie, se organizzate per tempo, sarebbero state, probabilmente, la migliore delle soluzioni possibili. Se è troppo tardi, l'unica strada percorribile per il Pdl è quella di un congresso che non sia la solita convention, fatta di luci, applausi, canzoni, discorsi di circostanza e trionfo finale del leader. Al Pdl occorre un appuntamento in cui vi sia spazio per discussioni, denunce, proposte ed esami di coscienza. Soltanto così gli elettori che non si sentono sufficientemente rappresentati da altre formazioni politiche del centrodestra, sapranno se nel Pdl vi siano ancora donne e uomini, possibilmente nuovi, degni di aspirare alla loro fiducia. Beninteso il congresso sarà utile soltanto se Berlusconi accetterà di assistere dalle quinte. Farebbe un bel regalo di Natale al suo partito e a se stesso.

diSergio Romano, dal Corriere