martedì 25 giugno 2013

Ristrutturare il debito

Spese militari, grandi opere, pensioni d'oro, evasione: anche cambiando molte voci della spesa l'Italia non potrà evitare il tracollo e lo spettro della Grecia. Lo dicono le cifre degli 80-90 miliardi di interessi sul debito, più i 45-50 per riportarlo al 60% del Pil. È giunto il momento di ristrutturare il nostro debito pubblico?

di Guido Viale, da il manifesto
Ci siamo assuefatti a convivere con un meccanismo economico e finanziario che ci conduce inesorabilmente a una progressiva distruzione del tessuto produttivo del paese e delle istituzioni fondanti della democrazia: in questo quadro la perdita di imprese, posti di lavoro, know-how e mercati in corso è irreversibile, come lo è la progressiva abolizione dei poteri degli elettori, del Parlamento e, soprattutto, degli Enti locali: cioè dei Comuni, che sono le istituzioni del nostro ordinamento giuridico più vicine ai cittadini. La Grecia, avanti a noi di un paio di anni in quel percorso di distruzione delle condizioni di esistenza di un'intera popolazione imposto, con una omogeneità impressionante, a tutti i paesi europei del Mediterraneo, ci mostra come alla devastazione provocata dai diktat della finanza e dalla governance europea non ci sia mai fine. 

Il Governo italiano non sa dove trovare otto miliardi per soddisfare le richieste su Iva e Imu a cui Berlusconi ha subordinato la sua permanenza nella maggioranza. Ma nessuno mette in discussione il fatto che ogni anno lo Stato italiano riesca sempre a trovare - e paghi - 80-90 miliardi di interessi ai detentori del debito pubblico italiano. E nessuno dice che dall'anno prossimo, a quegli 80-90 miliardi se ne dovranno aggiungere ogni anno altri 45-50 per riportare in 20 anni il debito pubblico al 60 per cento del PIL. Nel frattempo il PIL cala e il debito cresce mentre interessi e quota del debito da restituire aumentano; e nessuno sa o dice dove troverà tutto quel denaro che, con il pareggio di bilancio in Costituzione, non può che essere estratto da nuove tasse - ovviamente a carico di chi già le paga - facendo precipitare ancor più in una spirale senza fine occupazione, redditi, bilanci aziendali e spesa pubblica, cioè scuola, sanità, pensioni, ricerca, salvaguardia del territorio e del patrimonio artistico. C'è stata una cessione di sovranità a favore della finanza internazionale sia in campo economico che politico e ciò a cui molti di noi si sono assuefatti è l'idea che a tutto ciò "non c'è alternativa".

Quell'alternativa va dunque trovata, ma bastano i pochi numeri citati per capire che a queste condizioni nessuna promessa, o anche solo proposta, di "rilancio produttivo" e di lotta alla disoccupazione e alla povertà ha la minima possibilità di funzionare; e che coloro che le fanno, ignorando volutamente questo quadro, mentono; forse anche a se stessi. Certo, all'interno del bilancio statale si potrebbero spostare molte poste: per esempio dalla spesa militare a quella civile; dalle grandi opere inutili e costose al reddito di cittadinanza; dalle 100mila pensioni oltre i 90mila euro (per un totale di 13 miliardi all'anno!) a quelle sotto i 10mila; oppure recuperare fondi dall'evasione: in fin dei conti il debito pubblico italiano (2.040 miliardi) è meno della somma dell'evasione fiscale e degli interessi sul debito degli ultimi 20-25 anni: e in gran parte, probabilmente, i beneficiari sono gli stessi. 

Il debito pubblico italiano, con gli interessi, è insostenibile e incompatibile con qualsiasi prospettiva che non sia la chiusura e il degrado progressivo di tutte le nostre fonti di sostentamento; lo Stato italiano, come quello greco, di fatto è già fallito. Ridurre in misura sostanziale il debito svendendo il patrimonio pubblico, più che un'illusione è un imbroglio: la svendita della quota pubblica di Eni, Enel, FS, Finmeccanica e Fincantieri oggi frutterebbe poco più di 100 miliardi, meno di quanto continueremmo a pagare ogni anno tra interessi e quota di restituzione; la svendita di tutto il demanio e degli immobili di Stato ed Enti locali a prezzi di mercato frutterebbe ancor meno. 

Meno che mai potrebbe funzionare, per rimettere in piedi il tessuto economico, "l'uscita dall'euro", che probabilmente si verificherà comunque come conseguenza dello sfascio di tutto l'edificio dell'UE a cui ci sta portando la sua governance; non prima, però, di aver ridotto a zero il potenziale economico di metà del continente. Né c'è da sperare che dopo le elezioni tedesche la musica cambi... Che una svalutazione anche consistente possa far ripartire esportazioni e domanda interna a un'economia ormai in frantumi è una mera illusione: il quadro internazionale è profondamente cambiato e niente è più come prima. E che il problema principale non sia la sopravvalutazione dell'euro ma il blocco della spesa pubblica lo dimostra il fatto che le imprese italiane rimaste solide hanno esportato e continuano a esportare anche con l'euro.

Il fatto è che senza una radicale ristrutturazione del debito (il suo consolidamento; o un "default" controllato; o una moratoria sul pagamento degli interessi) ben più radicale di quella attraverso cui, senza dirlo, è già passata la Grecia (senza peraltro trarne alcun beneficio, perché è stata insufficiente e tardiva) e possibilmente adottata congiuntamente da tutti i paesi non più in grado di far fronte al loro debito, non c'è che il tracollo. Ma ristrutturare il debito non basta. Senza una radicale riconversione del tessuto economico per dare nuovi sbocchi alle imprese che hanno perso il loro mercato interno o estero; o a quelle che per produrre fanno più danni che benefici - e non sono poche, dall'Ilva all'industria bellica, per non parlare dell'auto - non c'è alcuna possibilità di salvare quel che resta dell'apparato produttivo italiano, del suo patrimonio impiantistico, del suo know-how, dell'occupazione. E meno che mai di creare i milioni e milioni di nuovi posti di lavoro necessari a restituire a tutti un presente e un futuro decenti.

Una riconversione del genere non può essere fatta che mettendo al centro l'obiettivo della sostenibilità: sia per spostarsi sulle produzioni che hanno un futuro, anche di mercato; sia per prevenire i costi sempre più pesanti, e destinati a crescere, provocati dai cambiamenti climatici. Tutto ciò richiede produzioni e consumi ecologici e processi che esigono decentramento e ridimensionamento degli impianti, la loro differenziazione in base alle caratteristiche del territorio, la partecipazione ai processi decisionali di maestranze, cittadinanza attiva e governi locali e, soprattutto, riterritorializzazione (cioè rilocalizzazioni): attraverso accordi diretti tra produttori e consumatori o utilizzatori che non annullano certo le funzioni del mercato, ma che le regolano e lo sottraggono, senza cadere nel protezionismo, a quella competitività selvaggia e globalizzata che è solo una corsa verso il sempre peggio.

In questo processo un ruolo cruciale possono e devono giocarlo i servizi pubblici locali riconquistati al controllo dei poteri pubblici e, attraverso di loro, di una cittadinanza capace di imporre nuove forme di democrazia partecipata. E' l'unica strada per sottrarsi al dogma del "non c'è alternativa" e andrebbe sottoposta a una a un confronto pubblico tra tutte le forze che si ritengono "alternative"; ma soprattutto tra quelle miriadi di organizzazioni che operano, spesso in silenzio. per costruire un modo di vivere e convivere diverso, a volte senza nemmeno realizzare di essere la parte attiva di quel 99 per cento della popolazione vessata dal capitale finanziario. Un confronto del genere andrebbe esteso anche a livello europeo (con un occhio alle prossime elezioni) per ricavarne un programma generale, di respiro internazionale nel suo impianto, ma articolato e sorretto da una molteplicità di proposte, di rivendicazioni, di buone pratiche e di casi di successo a livello locale.

Per chi si pone in questa prospettiva governo significa innanzitutto autogoverno e le cose da fare non sono la "sintesi" - come spesso si dice e si cerca di fare - tra le mille istanze differenti che agitano il movimento; occorre invece aiutare queste stesse forze a fare loro stesse questa sintesi: a riconoscere nel proprio agire l'embrione insostituibile e irrinunciabile di un programma di governo alternativo. In tutti i luoghi dove già sono all'opera, queste forze sono le sedi potenziali di un'aggregazione di istanze consimili, di un confronto tra rivendicazioni diverse ma convergenti, di una volontà di coinvolgere nei propri progetti il governo del territorio. La riformulazione di un programma e l'aggregazione intorno a esso delle forze disponibili è la condizione per legittimare il rigetto dei patti di stabilità e per sostenere le ragioni di questa prospettiva a livello europeo. 

Su questa stessa strada si costruiscono anche le premesse per fare fronte alle ritorsioni che immancabilmente seguirebbero alla scelta di ristrutturare i debiti; ma anche alle conseguenze di un'eventuale dissoluzione dell'euro causato dall'impasse politica in cui sta precipitando la governance europea; e, ancor più, per prevenire il progressivo deterioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione, se le cose continueranno a procedere nella direzione in cui le spinge il governo delle larghe intese.

(25 giugno 2013)

lunedì 24 giugno 2013

Intervista a Gianni Vattimo

Maestri, letture, amori, disperazioni del fondatore del pensiero debole: "La religione non ha niente a che fare con certe asserzioni, tipo Dio c’è o Gesù è resuscitato. Cosa ne sappiamo? Ma è la caritas verso gli altri il solo modo di vivere l’amor dei intellettuale".

Intervista a Gianni Vattimo di Antonio Gnoli, da Repubblica, 23 giugno 2013
Ormai fa coppia fissa con Sancho. Mentre siamo a tavola davanti a un piatto di involtini primavera cucinati dalla domestica filippina — una suora laica, scoprirò più avanti — Sancho scuote pigramente la testa e guarda incuriosito l’intruso, che poi sarei io. «Non è geloso, glielo assicuro», dice Gianni Vattimo, «è solo che gli piace essere al centro dell’attenzione. I gatti sono così: un misto di curiosità, indifferenza e abitudine». La conversazione va avanti già da un po’. Prima nella penombra del salotto. Poi qui nella stanza dove ceniamo, ricompresa nel vasto appartamento torinese. C’è un poster colore rosso acido che attira la mia attenzione: ritrae Vattimo, sotto una frase di Keynes: «La repubblica dei miei sogni si colloca all’estrema sinistra della volta celeste». «Fu un dono di certi amici per i miei settant’anni», ricorda il professore.

Si sente anche lei all’estrema sinistra di qualcosa?«Sono affetto da un sinistrismo legato alla mia militanza cattolica. A volte sogno un comunismo ermeneutico la cui verità si realizzi nel dialogo».

Non è più una posizione liberale?«No, il mondo liberale è stato inghiottito dal liberalismo che ha cancellato ogni forma di verità e di dialogo. Il comunismo al quale io penso non è quello scientifico, con pretese positivistiche. Sono convinto che se Stalin avesse letto qualche pagina sul pensiero debole avrebbe probabilmente ammazzato molta meno gente».

Ho qualche dubbio.«Lui ha fatto quello che da noi eseguono i governi tecnici: ciò che era necessario, in quel caso, per l’industrializzazione forzata dell’Urss. Bisogna guardarsi da coloro che si appellano all’oggettività
delle cose».

Realismo uguale repressione?«Vanno a braccetto. Forse per questo i governi occidentali a quanto pare acquistano sempre più armi da antiguerriglia urbana».

Era una considerazione alla quale giunse parecchi anni fa Michel Foucault.«Vedeva l’Occidente sempre più preda dei controlli. Sorvegliare e punire. E non solo nelle cliniche per matti o nelle carceri. Ma nei centri urbani. Si era invaghito della rivoluzione iraniana. Lo conobbi nel 1964, o forse era il ’65, in un’abbazia non lontana da Parigi dove si teneva un convegno su Nietzsche. Era abbastanza scostante, non cercò neppure di sedurmi».

Allude alla sua omosessualità?«Scherzo, naturalmente. Anche perché allora non si sapeva niente di nessuno. Comunque arrivai fin lì da Heidelberg — dove studiavo con Löwith e Gadamer — mi presentai, con la mia faccia da ragazzino, a Gilles Deleuze, che era l’organizzatore. Mi squadrò sorpreso. Gli sembravo troppo giovane. Volle leggere la relazione prima, non si fidava».

Com’era Deleuze?«Aveva certi unghioni stranissimi, sembrava un vampiro. Anni dopo ho introdotto in Italia qualche suo libro. Ma le confesso che del suo pensiero ho capito ben poco».

Si creano equivoche leggende.«Un giorno fui invitato a Seattle a un convegno sull’architettura post-moderna. Un tizio mi introdusse e cominciò a citare i miei libri. Non capivo nulla di cosa stesse dicendo. Mi sembravano delle follie».

È l’ermeneutica quando impazzisce.«Come la maionese. La filosofia può essere un bel gioco ma non tutti i giochi sono filosofici».

Lei con chi ha studiato filosofia?«Mi sono laureato con Luigi Pareyson nel 1959. Mi ero allora invaghito di Adorno e dei francofortesi. Pareyson mi disse: “Ma perché vuole studiare questi qui? Si dedichi piuttosto a Nietzsche che è alla base di tutti loro”. Cominciai così. Poi nel 1960 comparve il libro di Heidegger su Nietzsche. Per leggerlo avrei dovuto conoscere il tedesco. E allora mi recai a studiare in Germania ».

Prima della filosofia cosa era accaduto nella sua vita?«Di rilevante il fatto che avessi lavorato in Rai. Entrai nel 1954 con un concorso. Me ne andai dopo qualche anno su sollecitazione del mio direttore spirituale che considerava l’ambiente televisivo un luogo corrotto».

Il direttore spirituale?«Monsignor Caramello, grande studioso di San Tommaso. Sosteneva che la mia vocazione era la filosofia. Naturalmente, sperava che diventassi un filosofo cristiano».

E lei l’ha deluso?«Fino a un certo punto. Come si dice? Santi in chiesa e fanti in taverna».

Crede nell’aldilà?«Sarebbe un’affermazione azzardata. Credo di più nella speranza di una giustizia divina senza la quale non muoveremmo neanche un dito nella storia. Poi, se l’anima esala e va da qualche parte, non lo so. Non si può spiegare tutto. Le confesso però che la sera, prima di dormire, recito delle parti del breviario. È la compieta ».

È cosa?«Nella liturgia delle ore è l’ultima preghiera della giornata. È molto bella».

Cosa le trasmette?«Un senso di tranquillità. Ho cominciato a recitarla quando si ammalò il mio amico Giampiero. Mi faceva stare meglio. In fondo, è come se mi figurassi di quando ero piccolo e avevo più speranze nel futuro. La religione è un’abitudine infantile che ti porti dentro».

Come è stata la sua infanzia?«Erano gli anni della guerra. Ricordo i fischi delle bombe a Torino in Borgo San Paolo. Distrussero la casa dei miei genitori. Decidemmo di raggiungere alcuni parenti di mio padre in Calabria. Mia madre aveva quarant’anni e si adattò a tutto questo stravolgimento. Restammo lì dal 1942 al 1945. Tornammo a Torino andando incontro alla povertà più assoluta. La mamma si mise a fare la sarta e io l’aiutavo nel sopraggitto: è un punto di cucito nel quale divenni particolarmente abile. In fondo, il mio provvidenzialismo si lega a delle situazioni di assoluta disperazione».

Disperazione anche quando scoprì le sue tendenze sessuali?«Venivo pur sempre dal mondo cattolico, dove la repressione ha la sua importanza. Dicevo interi rosari con le mani sul pavimento sotto le ginocchia. Un male tremendo e avevo diciotto, forse vent’anni. Quando compresi la natura della mia sessualità mi venne l’ulcera. Mi operarono ed ebbi la fortuna di conoscere un ballerino cubano, con cui sono stato per un paio di mesi».

Fu la rivelazione?«No, perché in realtà già sapevo. Ma fu la liberazione. Era il 1968. Per lungo tempo degli orientamenti sessuali non ho parlato con i miei amici, con le persone che mi stavano più vicine».

Le sue scelte si rivestono, di solito, di un senso di ironia.«Direi più di epicureismo. Gratta gratta, sono una persona che non è mai diventata padre. Mi considero più giovane di quanto in realtà sia e, a volte, mi comporto come un enfant gâté che in un signore di quasi ottant’anni suona alquanto ridicolo».

Ha mai desiderato un figlio?«Certe volte, soprattutto in passato. Ma ora non più. E poi credo che uno debba vivere bene l’esperienza di figlio prima di averne di propri. E io non l’ho vissuta nel migliore dei modi. Ho sognato una sola volta che sciavo dietro mio padre; ma io mio padre non l’ho mai visto. Quando è morto avevo un anno e mezzo. Però posso dirle che ho un sacco di “figli di puttana”, o meglio, di giovani amici di cui sono diventato una specie di padre. Vengono spesso a mangiare qui, attorno a questa tavola. Mi spolpano».

Le piace farsi spolpare?«Un po’ sì. Ho sempre pensato che sia più facile dire sì che dire no. Non mi so difendere abbastanza dai legami che si incrostano e che, come dice un’amica, diventano delle spese fisse».

Che rapporto ha con il denaro?«Per molti anni non mi sono amministrato da me. Prendevo lo stipendio e lo consegnavo a mia madre. Era lei a darmi i soldi. Non ho mai fatto preventivi sul denaro. Finché ce ne è bene, poi si vedrà».

E i suoi desideri?«I miei desideri cosa?»

Come convive con il loro calo?«Resta pur sempre la nostalgia del desiderio»

Accennava alla malattia di un suo compagno. Poi si è aggiunta quella di un altro amico. Cosa è stato per lei il dolore di vedere morire due figure così care?«A volte mi rimprovero di essere diventato un po’ cinico. Esperto in un genere letterario un po’ particolare: i necrologi. Ma in certi momenti mi viene il magone. L’altra settimana viaggiavo in macchina con un giovane amico che aveva messo una canzonetta in cui c’entrava Fidel Castro. Improvvisamente mi sono messo a piangere. Non mi era mai accaduto. Almeno non così platealmente. E ho pensato: sto invecchiando. Poi mi è tornato alla mente che in quel famoso convegno su Nietzsche, quando fu il mio turno di parlare, Gabriel Marcel si mise a piangere. E io pensai: ma guarda che discorso commovente che sto facendo. Un collega guardandomi disse: non ti preoccupare, da quando è vecchio lui piange sempre se ascolta qualcuno al microfono. Un’amica psicologa dice che vivo di sensi di colpa. Li ho ormai così estesi che se di notte prendo un taxi mi scuso con il tassista se il percorso è breve».

Ha mi fatto analisi?«No. Tanto tempo fa, la moglie di Pareyson voleva che entrassi in analisi. Diceva: si sbrighi, che poi diventa vecchio».

C'è un'età giusta?«Come per tutte le cose, quando è tardi è tardi. Ma non sono un campione degli addii».

Che ne è del giovane brillante, il primo della classe, che stupiva i professori?«È una zona del passato che ogni tanto mi piace rievocare. C’è sempre un tempo in cui il pugile ha danzato sul ring».

Dà l’impressione che non gliene freghi più molto della filosofia.«Da quando ho scoperto la prassi sono un po’ distante dalla filosofia accademica. Vogliamo ancora dare un contributo a una nuova lettura di Heidegger? Boh. La verità è che non mi sento più a mio agio nei convegni troppo tecnici. Sto rileggendo Spinoza e in particolare il Trattato teologico politico. Aveva intuito e anticipato che la vera religiosità è postmoderna. La religione non ha niente a che fare con certe asserzioni, tipo Dio c’è o Gesù è resuscitato. Cosa ne sappiamo? Ma è la caritas verso gli altri il solo modo di vivere l’amor dei intellettuale. Finirò col fare il predicatore in qualche comunità religiosa, magari concedendomi qualche libertà nei costumi».

(24 giugno 2013)

A lezione di Ignoranza

A lezione di Ignoranza


Un corso sorprendente ma serissimo alla Columbia di New York
Lo tiene un professore
di neuroscienze
PIERO BIANUCCI
Sapevate che alla Columbia University di New York c’è un corso di Ignoranza? Lo tiene Stuart Firestein, che è anche professore di neuroscienze e direttore del Dipartimento di biologia.  
Immaginare come funzioni un corso di Ignoranza porta a paradossi curiosi. L’esame misura quanto si sa sull’ignoranza o quanto si ignora? Per gli studenti è meglio prendere 18 o 30 e lode? Ancora: con quali criteri si organizza un concorso alla cattedra di Ignoranza? Come si forma la commissione? Con docenti di quali discipline? I suoi componenti dovranno essere di chiara fama o precari sfigati? I candidati presenteranno una lista di pubblicazioni scadenti? Vincerà la cattedra chi ha il curriculum peggiore? 

Messa così non sembra una cosa seria. Invece lo è. Possiamo immaginare la conoscenza come un’isola che cresce in mezzo a un oceano che rappresenta l’ignoranza. All’inizio la scienza era un atollo piccolissimo, oggi è una grande isola divisa in varie regioni: fisica, chimica, biologia, informatica e così via. E si allarga sempre più rapidamente. Ma attenzione: con la stessa velocità si allunga la sua linea di costa. Cioè il confine con l’oceano dell’ignoranza. Dunque, osserva Firestein, il prodotto finale della conoscenza è l’ignoranza. Però, aggiunge, una «ignoranza informata», che si configura come nuove domande, che a loro volta produrranno risposte, cioè conoscenza, e quindi altra ignoranza. 

Fin qui è tutto abbastanza normale. Socrate insegnò che la vera conoscenza è sapere di non sapere e il cardinale Nicola Cusano (1401-1464) parlava di «dotta ignoranza», intendendo che si può conoscere l’ignoto solo mettendolo in relazione con ciò che già si conosce, ma perché ciò avvenga, occorre avere qualche vaga conoscenza dell’ignoto; solo Dio possiede una conoscenza infinita. 

È tuttavia necessario un passo ulteriore, e Stuart Firestein lo fa: al di là dell’ignoranza che sappiamo di avere perché è il confine con il conosciuto (la linea di costa dell’isola), bisogna sapere che può esistere qualcosa che ignoriamo di ignorare. È un po’ come se, dalla costa dell’isola, vedessimo soltanto oceano e oceano e oceano: ciò non significa che oltre l’orizzonte non ci siano altri continenti, cioè l’ignoto immerso nell’ignorato. Questa, se volete, è una «dotta ignoranza» di secondo livello. Una meta-ignoranza o, da un altro punto di vista, una meta-conoscenza. 
Stuart Firestein, da buon americano, non si avventura in ragionamenti così sottili, tipici della nostra filosofia europea. Però coglie il centro del bersaglio: la scienza progredisce tanto più rapidamente quanto più gli scienziati prendono consapevolezza della loro ignoranza e – ancora meglio – del fatto che esiste una ignoranza che ignorano. 

Oggi quasi tutti i ricercatori lavorano chiusi dentro le soffocanti pareti della specializzazione. Firestein ricorda che nel 2002 «sono stati archiviati nel mondo cinque esabyte di informazioni, cioè quanto basta a riempire la Biblioteca del Congresso Usa trentasettemila volte». Ma dal 2002 «questo dato è cresciuto di un milione di volte». Nessuno potrà mai dominare una tale massa di informazioni neppure nell’ambito della propria disciplina. Figuriamoci che cosa potrà sapere delle discipline altrui. Eppure le cose più interessanti (le scoperte) si fanno sulla frontiere tra scienze diverse. Una dotta ignoranza dovrebbe portare a questa consapevolezza. Se poi si vuole davvero scoprire qualcosa di rivoluzionario, serve la meta-ignoranza: sapere che può esserci qualcosa che ignoriamo di ignorare. 

Ecco perché, nel suo corso alla Columbia University, Firestein invita colleghi fisici, biologi, chimici, matematici, e chiede loro di tenere una lezione su ciò che non sanno. Non contento, ha scritto un libro -Viva l’ignoranza!, ora tradotto per Bollati Boringhieri (pp. 156 pagine,  14) - dove ha raccolto il suo messaggio e una serie di «case history». Tra le «case history» c’è anche la sua. Incominciò a lavorare come aiuto direttore di scena di una compagnia teatrale e fece carriera fino a diventare regista. A quel punto, senza abbandonare il palcoscenico, si laureò in etologia alla San Francisco State University. Dopo aver indagato sul ruolo dell’olfatto negli animali, poiché il senso dell’odorato è costituito da terminazioni nervose, passò allo studio del cervello, l’organo più misterioso. Un percorso dall’ignoranza totale all’ignoranza che sa di ignorare e sa che potrebbe non sapere di non sapere. 

Non vorrei però che qualcuno, scoprendo i paradossi di Firestein, giungesse alla conclusione che la scienza sa poco o niente e finisse con lo svalutarla, come tanti oggi tendono a fare. Se così fosse, il rimedio c’è. È il libro di Gilberto Corbellini Scienza (Bollati Boringhieri, pp. 156,  9): qui troverete risposta a tutte le critiche che una cultura ignorante della propria ignoranza muove alla conoscenza scientifica. Tipo: la scienza è riduzionista e quindi inadeguata a spiegare la complessità del reale, gli scienziati non vanno d’accordo neppure tra loro, la scienza è un’organizzazione di potere, la scienza non genera valori e quindi è sottoposta all’etica, la scienza annulla la soggettività e quindi è sorda ai valori umanistici.... E se fosse vero proprio il contrario? 
fonte: la stampa

sabato 15 giugno 2013

La paura del popolo

di Barbara Spinelli, da Repubblica, 12 giugno 2013
Di tanto in tanto, quando si temono rivoluzioni, o si fanno guerre, oppure nel mezzo di una crisi economica che trasforma le nostre esistenze, torna l’antica paura del suffragio universale.

Del popolo che partecipa alla vita politica, che licenzia i governi inadempienti e ne sceglie di nuovi, che fa sentire la propria voce. È la paura che le classi alte, colte, ebbero già nella Grecia classica. Aristotele paventava la degenerazione democratica, se sovrano fosse diventato il popolo e non la legge. Ancora più perentorio un libello anonimo (La Costituzione degli Ateniesi, attribuito a Senofonte) uscito nel V secolo aC: «In ogni parte del mondo gli elementi migliori sono avversari della democrazia (…). Nel popolo troviamo grandissima ignoranza e smoderatezza e malvagità. È la povertà soprattutto, che lo spinge ad azioni vergognose». Il dèmos respinge le persone per bene: «vuole essere libero e comandare, e del malgoverno gliene importa ben poco ». Sotto il suo dominio tutte le procedure si rallentano, ed è il caos che oggi chiamiamo ingovernabilità.

L’orrore del populismo o dei democratici demagoghi ha queste radici, che Marco D’Eramo illustra con maestria in un saggio uscito il 16 maggio su Micromega.
Ma è dopo la Rivoluzione francese, e in special modo quando comincia a estendersi gradualmente il diritto di voto, nella seconda parte dell’800, che fa apparizione un’offensiva ampia, e concitata, contro il suffragio universale. Inorridiscono i democratici stessi. Nei primi anni del ’900, il giurista Gaetano Mosca vede già le plebi e le mafie del Sud distruggere istituzioni e buon governo. È diffusa l’idea che i migliori, e le migliori politiche, saranno travolti e annientati dal popolo elettore. Si formano chiuse oligarchie, con la scusa di tutelare il popolo dai suoi demoni.

È una paura che va a ondate, e non sempre l’oggetto che spaventa è esplicitamente indicato. Quella che oggi torna a dilagare pretende addirittura di salvare la democrazia, imbrigliandola e tagliando le ali estremiste (gli «opposti estremismi», spiega d’Eramo, diventano sinonimi di populismo). Ma gli elementi dell’annosa offensiva contro il suffragio universale sono tutti presenti, sotto traccia. Il popolo smoderato e incolto va vigilato, spiato: o perché chiede troppo, o perché rischia di avere troppi grilli per la testa. Sono aggirate anche le Costituzioni, fatte per proteggere i cittadini dai soprusi delle cerchie dominanti. Ovunque le democrazie sono alle prese con i danni collaterali di questa ferrea legge oligarchica.

Accade proprio in questi giorni in America, dove prosegue una guerra antiterrorista sempre più opaca, condotta senza che il popolo (e neppure gli alleati per la verità) possa dire la sua. Il culmine l’ha raggiunto Obama, che pure aveva criticato la torbida sconfinatezza delle guerre di Bush. Il 6 giugno, viene svelata un’immensa operazione di sorveglianza dei cittadini americani da parte dell’Agenzia di sicurezza nazionale: milioni di numeri telefonici e indirizzi mail, raccolti non in zone belliche ma in patria col consenso segreto di vari provider. Indignato, il New York Times commenta: «Il Presidente ha perso ogni credibilità» (poi per prudenza rettifica: «Ha perso ogni credibilità su tale questione »).

Analogo orrore dei popoli è ravvivato dalla crisi economica, governata com’è da trojke e tecnici separati dai cittadini: anch’essa, come la guerra, va affidata a pochi che sanno (poche persone per bene, pochi migliori, direbbe lo Pseudo-Senofonte). Gli ottimati sapienti stanno come su una zattera, e non a caso il loro nome è «traghettatori». Sotto la scialuppa ribolle il popolo: forza infernale, miasma imprevedibile e contaminante. Infiltrato da meticci, demagoghi, gente colpevole due volte: sia quand’è sprecona, sia quando non consuma abbastanza. Sono invisi anche gli sradicati, o meglio chi pensa all’interesse generale oltre che locale: se vuoi lusingare un partito, oggi, digli che non è un meteco ma «ha un forte radicamento territoriale». Nei cervelli dei traghettatori s’aggira il fantasma, temuto come la peste dagli anni ’70, dell’esplosione sociale e dell’ingovernabilità.

È in questa cornice che le parole si storcono, sino a dire il contrario di quel che professano. La riforma significava miglioramento delle condizioni dei cittadini, del loro potere di influire sulla politica. Furono grandi riforme il suffragio universale, e subito dopo l’introduzione del Welfare: ambedue malandate. Adesso il riformista escogita strategie per tenere al guinzaglio gli eccessi esigenti dei governati. Il proliferare in Italia di comitati di saggi (per cambiare la Costituzione, per il Presidenzialismo) è sintomo di un crescente scollamento di chi comanda dal popolo, e al tempo stesso dai suoi rappresentanti. Ci si adombra, quando il Parlamento è definito una tomba. Per fortuna non lo è. Ma un Parlamento fatto di nominati più che di veri eletti somiglia parecchio a un sepolcro imbiancato: e così resterà, finché non avremo diritto a una legge elettorale decente.

Tale è la paura del popolo-elettore, che per forza quest’ultimo si ritrae e fugge. Si esprime in vari modi (nei referendum, sul web, attraverso la stampa indipendente) ma ogni volta sbatte la testa contro un muro. Lo Stato ne diffida, al punto di spiare milioni di cittadini come in America. E i nemici peggiori diventano i reporter e le loro fonti, che gettano luce sulle malefatte dei governi. Nel 2010 fu il caso di Wikileaks. Oggi è il turno del Guardian e del Washington Post, che hanno scoperchiato il piano di sorveglianza spionaggio (nome in codice: Prism) del popolo americano. Non restano che loro, fra lo Stato-Panoptikon che ti tiene d’occhio e i cittadini mal informati. In inglese le gole profonde che narrano i misfatti si chiamano whistleblower: soffiano il fischietto, in presenza di violazioni gravi della legalità, e antepongono il dovere civico alla fedeltà aziendale. Ben più spregiativamente, politici e giornali benpensanti li definiscono spie, se non traditori. «Non chiamateli talpe!», chiede molto opportunamente Stefania Maurizi su Repubblica online di lunedì. Il soldato Bradley Manning, che smascherò tramite Wikileaks i crimini Usa nella guerra in Iraq, è da 3 anni in prigione. Ora è processato, rischia l’ergastolo.

Il whistleblower che ha rivelato il piano di sorveglianza voluto da Obama è Edward Snowden, 29 anni, ex assistente della Cia e della Nsa: è rifugiato a Hong Kong, e da lì fa sapere: «L’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa) ha costruito un’infrastruttura che intercetta praticamente tutto. Con la sua capacità, la vasta maggioranza delle comunicazioni umane è digerita automaticamente, senza definire bersagli chiari. Se volessi vedere le tue email o il telefono di tua moglie, devo solo usare le intercettazioni. Posso ottenere le tue email, password, tabulati telefonici, carte di credito. Non voglio vivere in una società che fa questo genere di cose. Non voglio vivere in un mondo in cui ogni cosa che faccio e dico è registrata. Non è una cosa che intendo appoggiare o tollerare».

Il popolo reagisce ai soprusi e all’indifferenza del potere in vari modi: impegnandosi in associazioni (ricordiamo i referendum italiani sul finanziamento dei partiti e sull’acqua, o il voto contro il Porcellum); oppure ritirandosi quando si accorge di non contare nulla. Altre volte smette di credere e diserta le urne, come alle amministrative di questi giorni. Ma sempre potrà sperare di avere, come alleati, i whistleblower che toglieranno il sigillo alle illegalità, alle cose nascoste o sporche della politica. Ecco cosa produce lo sgomento causato dal dèmos.
Il popolo stesso s’impaura, entra in secessione. La paura del suffragio universale non è mai finita, sempre ricomincia. Nacque nell’800, ma come nella ballata di Coleridge: «Dopo di allora, ad ora incerta – Quell’agonia ritorna».

(12 giugno 2013)

Il normale che non è etico

di Paul Krugman, dal New York Times, 10 giugno 2013 (ripreso in versione italiana da www.ildialogo.org)
È da un bel po' che mi occupo di economia, da così tanto, in effetti, che mi ricordo ancora di quello che era considerato normale nei giorni di tanto tempo fa, prima della crisi finanziaria. Normale, allora, significava un'economia che cresceva ogni anno di un milione o più di posti di lavoro, abbastanza per tenere il passo con la crescita della popolazione in età lavorativa. Normale significava un tasso di disoccupazione non molto al di sopra del 5 per cento, se non per brevi recessioni. E anche se la disoccupazione c'era sempre, normale significava che pochissime persone rimanevano senza lavoro per periodi prolungati.

Come avremmo reagito, in quei giorni di tanto tempo fa, alla notizia diffusa venerdì che nel nostro paese il numero degli occupati è ancora inferiore di due milioni a quello di sei anni fa, che il 7,6 per cento della forza lavoro è disoccupato (e molti di più sottoccupati o costretti ad accettare lavori a bassa retribuzione), e che fra i disoccupati più di quattro milioni sono senza lavoro da più di sei mesi? Beh, sappiamo come ha reagito la maggior parte degli addetti ai lavori: hanno detto che tutto sommato erano buone notizie. In effetti, alcuni stanno anche celebrando queste notizie come "prova" che l’ostruzionismo del partito repubblicano non sta facendo alcun danno.

In altre parole, il nostro discorso politico è ancora molto lontano dall’occuparsi di ciò di cui si dovrebbe occupare.
Per più di tre anni, alcuni di noi hanno combattuto l’ossessione distruttiva che ha portato l’élite politica a occuparsi soprattutto dei deficit di bilancio, un'ossessione che ha portato i governi a tagliare gli investimenti, quando avrebbero dovuto aumentarli, a distruggere posti di lavoro, quando creare posti di lavoro avrebbe dovuto essere la loro priorità. Ora quella lotta sembra largamente vinta - credo di non aver mai visto un crollo intellettuale improvviso come quello delle basi razionali della politica economica fondata sulla dottrina dell’austerità.

Ma che gli addetti ai lavori sembrino aver smesso di preoccuparsi per le cose sbagliate non è sufficiente. Bisogna anche iniziare a preoccuparsi per le cose giuste - vale a dire, per la condizione dei senza lavoro e per l'immenso spreco costituito da un'economia depressa. E questo non succede. Invece, i politici, sia qui che in Europa, sembrano attanagliati da una combinazione di compiacimento e di fatalismo, dalla sensazione che non c’è niente che debba essere fatto e niente che si possa fare. La sensazione che tutto quello che si può fare è alzare le spalle.

Anche le persone che siamo abituati a considerare i buoni, i politici che in passato hanno dimostrato di preoccuparsi davvero per la nostra debolezza economica, in questi giorni non stanno mostrando molta consapevolezza dell’urgenza di intervenire. Ad esempio, lo scorso autunno alcuni di noi sono stati molto incoraggiati dall’annuncio della Federal Reserve che stava preparando nuovi provvedimenti per sostenere l'economia. Dettagli politici a parte, la Fed sembrava voler segnalare la sua intenzione di fare tutto il necessario per ridurre la disoccupazione. Ultimamente, però, da parte della Fed si sente per lo più parlare di disimpegno progressivo, anche se l'inflazione reale è al di sotto di quella prevista, mentre la situazione occupazionale è ancora disastrosa e il ritmo del miglioramento è quasi impercettibile.
E i funzionari della Fed sono, come ho detto prima, i buoni. A volte sembra che, al di fuori di essi, nessuno a Washington consideri l'elevata disoccupazione un problema.

Perché la riduzione della disoccupazione non è una delle principali priorità della politica? Una risposta potrebbe essere che l'inerzia è una forza potente, e in politica è difficile ottenere cambiamenti senza la minaccia del disastro. Finché aggiungiamo, e non perdiamo, posti di lavoro, finché la disoccupazione è sostanzialmente stabile o in calo, non in aumento, i politici non sentono alcuna necessità urgente di agire.
Un'altra risposta è che i disoccupati non hanno molta voce politica. I profitti sono alle stelle, la borsa va bene, quindi le cose sono OK per le persone che contano, giusto?

Una terza risposta è che in questi giorni noi non sentiamo più tanto i falchi del deficit, mentre i falchi monetari - cioè gli economisti, politici e funzionari che continuano ad avvertirci che i bassi tassi di interesse porteranno a conseguenze disastrose - hanno, se possibile, alzato ancor più la voce. Nessuno sembra dare importanza alla lista impressionante di previsioni sbagliate che li accompagna (dov'è l'inflazione galoppante che avevano promesso?) proprio come quella che accompagnava i falchi fiscali. Ora gli argomenti cambiano (parlano di bolle speculative), ma la richiesta politica che fanno - bilanci più rigidi e tassi di interesse più elevati - è sempre la stessa. È difficile sfuggire alla sensazione che la Fed non si muova perché intimidita.

La tragedia è che tutto questo è inutile. Sì, si sente parlare della "nuova normalità" di un tasso di disoccupazione molto più alto, ma tutte le ragioni per questa presunta nuova normalità, come ad esempio la presunta mancata corrispondenza tra le competenze dei lavoratori e le esigenze dell'economia moderna, cadono a pezzi quando le si esamina accuratamente. Se Washington avesse invertito i suoi distruttivi tagli di bilancio, se la Fed avesse mostrato la "determinazione rooseveltiana" che Ben Bernanke chiese ai funzionari giapponesi quando era un economista indipendente, avremmo da tempo scoperto che non c'è niente di normale e necessario nella disoccupazione di massa di lunga durata.
Quindi, ecco il mio messaggio ai politici: così com’è l’economia non va affatto bene. Smettetela di alzare le spalle, e fate il vostro lavoro.

Traduzione di Gianni Mula

L'ottavo pilastro della saggezza

di Alberto Asor Rosa, da il manifesto, 14 giugno 2013
Non c'era un piano (così almeno presumo). Ma da un certo momento in poi il piano ha preso corpo: quando i soggetti interlocutori (ovvero, sia pure moderatamente e modestamente, distinti e contrari) sono così deboli e/o rinunciatari, è facile - diviene cammin facendo sempre più facile, - costruire un piano alternativo alle loro (peraltro estremamente confuse) intenzioni. E da quel momento, - e cioè dal momento in cui è diventata chiaramente visibile la confusione in cui i vari proponenti versavano, - il piano è stato applicato con sempre più lucida consapevolezza e con una davvero superiore capacità di controllo della crisi.

La gente comune, però, -cioè noi, - ha visto solo la punta dell'iceberg. Chissà se esiste in Italia un valoroso giornalista d'inchiesta, che, oltre ad occuparsi delle malefatte dei consiglieri regionali laziali e della compravendita di voti in Lombardia, sia disposto ad occuparsi di ciò che è accaduto in Italia nelle "alte sfere" della politica, dietro l'apparenza degli scenari visibili, nel corso degli ultimi tre-quattro mesi? Sarebbe il colpo della sua vita (si spera non in senso definitivo).
Andiamo per ordine, perché andare per ordine significa fermarsi un momento e dare ordine alle cose.

Il primo movimento è consistito nel negare al Pd di Bersani e conseguentemente all'intera alleanza di centro-sinistra, di presentarsi alle Camere con il proprio programma e di chiedervi il voto di fiducia. Non esistevano le condizioni che tale verifica si concludesse positivamente? E allora? Il centro-sinistra aveva la maggioranza assoluta dei voti alla Camera dei deputati e una consistente maggioranza relativa al Senato. Aveva cioè il diritto d'invocare una verifica parlamentare diretta, non istituzionalmente traslata e, come dire, pregiudizialmente anticipata in senso negativo (primo passaggio, dunque: questa cosa non può funzionare, dunque non mi piace e perciò non si può fare).

Negargliela (ma si poteva?) significava mettere fin dall'inizio il resto del processo sui binari giusti. Tolta quella verifica, non restava infatti gran che. Come in tutti i piani ben congegnati, infatti, si poteva fin dall'inizio tener conto sapientemente non solo delle proprie mosse e intenzioni ma soprattutto (ripeto: soprattutto) di quelle altrui, deboli e rinunciatarie fino alla dabbenaggine. In questo senso il piano disponeva, spontaneamente e senza sforzo alcuno, di un possente alleato: il Movimento 5 Stelle o, per essere più esatti, la rozza ma coerente strategia del comico Giuseppe Grillo.

Questi, infatti, non avrebbe mai dato una mano al centro-sinistra per superare la difficile impasse. Un eventuale affermazione del centro-sinistra avrebbe rappresentato, a giudizio del comico, la fine della propria espansione (non è detto peraltro che in quest'altro modo tale espansione sia meglio garantita, ma tant'è: in certi casi si naviga a vista). Negando il proprio appoggio al centro-sinistra di Bersani e Vendola il comico Giuseppe Grillo si iscriveva perciò volontariamente nella lista dei più potenti alleati di Silvio Berlusconi, anzi, almeno in quell'occasione, di sicuro il più potente. Al tempo stesso, la mossa grillina accentuava la deriva irresistibile verso un'altra possibile soluzione di governo, quella che il piano portava in corpo dall'inizio: la rendeva infatti con evidenza sempre più consistente, anzi l'unica possibile.

Mancava però ancora un fattore essenziale del processo: chi, da possibile, lo rendesse reale. La partita perciò si spostava dalla faticosa ricerca di una maggioranza parlamentare per la formazione di un governo all'altrettanto faticoso scioglimento del nodo presidenziale. Qui il piano, svolgendosi ulteriormente, dava il meglio di sé.

Il Pd, messo di fronte a quell'impegno, dimostra platealmente di non essere in grado di esprimere un proprio candidato, condiviso e fino in fondo sostenuto. Due politici, in vario modo e misura rappresentativi, Marini e Prodi, vengono sacrificati sull'altare di questa incapacità.

Ma davvero si tratta soltanto d'incapacità? Davvero quell'incapacità è il frutto di lacerazioni correntizie e personali, che il Partito nel corso della sua storia non è mai riuscito a comporre e a superare? Oppure si tratta della naturale prosecuzione di quel disegno che c'era fin dall'inizio? I cento voti che vagano nel chiuso delle urne onde impedire l'affermazione di questo o di quello, rappresentano la sommatoria casuale di malanimi fra loro contrapposti o costituiscono la forza d'urto consapevole e unitaria con la quale raggiungere uno scopo?

L'acme del disvelamento si raggiunge quando, alle altre fallite candidature, ne subentra una particolarmente fuori della norma, quella di Stefano Rodotà. Essa viene fuori, in maniera inequivocabilmente strumentale, dal ventre del Movimento 5 Stelle. Ma, data la natura fuori di dubbio alta e incontestabile del personaggio (il quale, per intenderci, prima della consultazione elettorale, aveva insieme con altri invitato pubblicamente a votare per il Pd), essa poteva essere la via d'uscita dalla morsa che sempre più chiaramente s'andava serrando attorno a quel partito; e, al tempo stesso, avrebbe rovesciato sul Movimento 5 Stelle la natura strumentale dell'operazione, costringendolo finalmente a una scelta. Che mi risulti, questa possibilità non è stata neanche discussa negli organismi dirigenti del Pd, certamente non nei gruppi parlamentari. Se non è così, vorrei essere smentito (l'inchiesta giornalistica di cui parlavo potrebbe partire proprio da qui).

Il fatto è che l'assunzione da parte del Pd della candidatura Rodotà, quale che ne risultasse anche in questo caso l'esito finale, avrebbe messo in crisi il piano: e questo non era tollerabile. Qui s'intreccia il nodo che si vorrebbe conoscere più a fondo. Infatti, per portare alle sue conclusioni ultime il piano, era necessario sconfiggere (no, non sconfiggere: fare a pezzi) Bersani; e per sconfiggere Bersani, era necessario sconfiggere (no, non sconfiggere: fare a pezzi) il Pd.

Ecco il punto sul quale i politologi, se ancora ne esistono, si dovrebbero buttare a pesce. Nell'ombra delle organizzazioni politiche italiane la "figura" partito è, da tempo, sempre meno presente. E' un partito il Pdl? E' un partito Scelta civica? E' un partito il Movimento 5 Stelle? In questo coacervo di gruppi proprietà personale di questo o di quello, il Pd manteneva una sua, vecchiotta ma dignitosa, fisionomia di partito (novecentesco) di massa. L'alleanza con Sel, foriera di un allargamento di quel partito a sinistra, da adottare secondo logiche, anche in questo caso, tradizionali, di partito, non faceva che accentuare questa sua caratteristica e tendenza.

Ebbene, non è difficile capirlo: per realizzare fino in fondo il piano bisognava distruggere persino il simulacro di quella centenaria unità organizzativa, qualcosa in cui esiste un qualche, per quanto approssimativo, canale di trasmissione fra la base e il vertice, i gruppi dirigenti si presentano e agiscono (almeno formalmente) secondo una logica democratica e gli eletti si sentono (o almeno dovrebbero sentirsi) obbligati a rispondere agli elettori, e cioè, per esempio, a non fare da eletti il contrario di ciò per cui sono stati eletti.

Il "governo delle larghe intese" comportava questa distruzione: e questa distruzione è stata puntualmente e rigorosamente compiuta. Il "governo delle larghe intese" rappresenta nel nostro prontuario l'ottavo pilastro della saggezza. Retrospettivamente, e sulla base dell'esperienza, ci si è resi conto che il "governo tecnico" non sarebbe stato sufficiente a conseguire tutti gli obbiettivi prefissati: ossia, per restare all'essenziale, un nuovo equilibrio di potere fondato sulla totale cancellazione dei vecchi parametri dell'agire politico in Italia, e forse, in prospettiva, in Europa, l'angolo visuale costituito dalla contrapposizione destra-sinistra, le politiche di governo orientate socialmente e, infine, la promessa di una promozione non fondata sulla corruzione (sostanziale, di comportamenti e di scelte, non necessariamente di soldi).

Ci voleva un governo di tutti per cancellare perfino il ricordo di un governo politicamente e socialmente orientato. Un governo che è di tutti non è però propriamente di nessuno. O meglio, è solo di un potere astrattamente considerato e simbolicamente rappresentato: quello che trascende il modesto gioco democratico al quale modestamente siamo stati educati nel quarantennio post-resistenziale e costituzionale, quello che affidava al voto la distinzione tra maggioranza e opposizione, tra governanti e governati, tra sostenitori della democrazia e suoi avversari.

La distruzione, anzi l'umiliazione, del Pd e, anche sul piano personale, del suo maggior leader, Pierluigi Bersani, costituiva infatti un solo versante, per quanto preliminare e fondativo, dell'ottavo pilastro della saggezza. L'altro, altrettanto indispensabile (se no, come si sarebbe giunti ragionevolmente a proporre e imporre il "governo delle larghe intese"?), era la restituzione al capo italiano del centro-destra (questo peculiarissimo, inconfondibile capo squisitamente "italiano", che tanto ci ha distinto e a quanto pare continuerà a distinguerci nel mondo) della patente di grande e rispettabile "statista". E' quel che è puntualmente avvenuto. Tutto il resto è stato messo fra parentesi. Sicché non è illegittimo pensare che questa colossale rimozione etico-politica sia da considerarsi un tassello essenziale nella costruzione della politica delle "larghe intese". E' come se il concetto di morale pubblica fosse sacrificato sull'altare dell'opportunità politica. Anche il dirlo è diventato da qualche tempo a questa parte riprovevole.

Chiamerei tutto questo una sapiente "normalizzazione" del quadro politico italiano: ossia la sua costrizione a farlo funzionare anche quando non ne esisterebbero le condizioni. E' la caratteristica, con aspetti più o meno rilevanti, di qualsiasi operazione d'impronta autoritaria. Solo che in Italia le "normalizzazioni" di tale natura sono sempre state piuttosto un "andare fuori della norma" con effetti, come tutti ricorderanno, in qualche caso devastanti. La mia impressione è che anche questa volta i dati principali dell'aggregato spingano in tale direzione.

(14 giugno 2013)

giovedì 6 giugno 2013

Pensare con la proria testa, amare con il proprio cuore

Pensare con la proria testa, amare con il proprio cuore

06/06/2013
Padre Vitangelo Denora, gesuita, delegato per i collegi della provincia d'Italia e d'Albania e direttamente responsabile per le scuole di Torino, Milano e Napoli. Foto Riccardo Venturi/Contrasto.
Padre Vitangelo Denora, gesuita, delegato per i collegi della provincia d'Italia e d'Albania e direttamente responsabile per le scuole di Torino, Milano e Napoli. Foto Riccardo Venturi/Contrasto.
Pensare con la propria testa e amare con il proprio cuore. Sapere che i talenti ricevuti vanno coltivati non solo per sé stessi, ma messi a disposizione del mondo. Le scuole dei Gesuiti – oltre 5 mila studenti in Italia e circa due milioni nel mondo– continuano a proporre un modello educativo che ha come obiettivo, con le parole di padre Pedro Arrupe, quello di «formare uomini con e per gli altri», di far capire a ciascuno quali sono le sue qualità e come metterle a disposizione degli altri «per costruire un mondo più umano e più giusto».

All’appuntamento con il Papa, in aula Nervi il 7 giugno, arrivano in oltre 9mila. Molti anche da Scutari, dal liceo Atë Pjetër Meshkalla, l’ultima scuola aperta dai Gesuiti italiani. È l’unica, delle sette, fuori dal territorio nazionale.Insieme con loro, gli alunni del Sociale di Torino, del Leone XIII di Milano, del Massimo di Roma, del Pontano di Napoli,del Sant’Ignazio di Messina, del Centro educativo ignaziano a Palermo.Hanno preparato disegni, poesie,lettere e domande. Dai più piccoli delle scuole materne fino agli studenti delle superiori ciascuno ha un suo pensiero da consegnare a Francesco. Con lo stile tipico di queste scuole che è quello di lasciare la parola agli studenti più che agli insegnanti. «È una tradizione antica che viene da sant’Ignazio», spiega padre Vitangelo Denora, delegato per i collegi della Provincia d’Italia e di Albania e direttamente responsabile per le scuole di Torino, Milano e Napoli.

«Sant’Ignazio pensava a una pedagogia più attiva: non il professore che parla,ma gli alunni che intervengono, che fanno molto lavoro personale e cooperativo. Il tutto, e questa è una nostra caratteristica che anche molti ex alunni ci riconoscono,per arrivare a sviluppare il pensiero critico, per aiutare le persone a pensare con la propria testa». La rete italiana fa parte di una più vasta che comprende, nella sola Europa, 170 istituti.Scuole all’avanguardia per ricerca e tecnologie, che si rifanno però tutte al modello pedagogico ignaziano, cioè, spiega padre Denora, «a una didattica molto laboratoriale, molto centrata sulla persona e sul percorso che ciascuno ha.Ognuno è chiamato a scoprire le proprie passioni, i propri talenti, a nascere a sé stesso, a vivere da protagonista». 
Foto Riccardo Venturi/Contrasto.
Foto Riccardo Venturi/Contrasto.
Quando la prima scuola fu aperta a Messina nel 1500, con l’idea di aiutare le persone a partecipare ai cambiamenti che si stavano producendo intorno a loro, una delle frasi più usate dai gesuiti era «il mondo è la nostra casa». Oggi,spiega padre Denora, «le frontiere della nostra pedagogia sono ancora quelle di costruire cittadini del mondo, aperti a quello che sta succedendo intorno a noi, a loro. Il mondo si fa più grande, più connesso e l’apertura è una delle caratteristiche che devono avere oggi i ragazzi per abitare questo mondo da protagonisti. Dobbiamo aiutare i ragazzi a vivere il mondo come la loro casa». Concretamente, significa imparare le lingue, usare le nuove tecnologie. In ogni classe c’è la lavagna elettronica e si usa il tablet per insegnare che gli strumenti possono servire anche per la scuola, per apprendere, per costruire la lezione insieme con gli insegnanti. In modo gioioso, altra caratteristica del metodo ignaziano.

E poi l’apertura agli altri, anche con l’inserimento, per esempio, dello studio del cinese come lingua curriculare per gli studenti del liceo classico di Torino e come attività integrativa pomeridiana per gli altri istituti. Alle ultime classi, poi, viene proposta la gita di fine anno a Pechino. Sempre a Torino, ma anche a Milano, è stato avviato il liceo sportivo. Per i liceali di tutti gli indirizzi sono previsti, nei programmi obbligatori,i campi missionari. Volontariato in Italia o all’estero, in particolare in Romania e Perù. E poi attività espressive, laboratori d’arte, teatro.Seguiti da docenti formati con appositi corsi, gli studenti imparano «a sorgere a sé stessi e ad abitare il mondo», sottolinea padre Denora.

Spesso da protagonisti, come dimostra la storia dei tanti uomini politici, scienziati, imprenditori,artisti che sono passati dai banchi dei Gesuiti. Qualcuno entra anche nella Compagnia di Gesù, ma questo non è l’obiettivo. «La nostra tradizione», conclude Denora, «è più laica e ha la caratteristica della totale gratuità. Gesù non guariva le persone perché poi lo seguissero.Le guariva perché si tirassero su e andassero per il mondo a testa alta. È quello che cerchiamo di fare anche noi facendo sì che i ragazzi, che spesso non ci credono, diventino consapevoli della loro dignità. Per essere capaci di scoprirei propri talenti e di utilizzarli a servizio dell’umanità intera».
di Annachiara Valle,da Famiglia Cristiana

mercoledì 5 giugno 2013

Noam Chomsky, “ecco 10 modi per capire tutte le menzogne che ci dicono”

Noam Chomsky, “ecco 10 modi per capire tutte le menzogne che ci dicono”

 Noam Chomsky, padre della creatività del linguaggio, definito dal New York Times “il più grande intellettuale vivente”, spiega attraverso dieci regole come sia possibile mistificare la realtà.
La necessaria premessa è che i più grandi mezzi di comunicazione sono nelle mani dei grandi potentati economico-finanzi
ari, interessati a filtrare solo determinati messaggi.
1) La strategia della distrazione, fondamentale, per le grandi lobby di potere, al fine di mantenere l’attenzione del pubblico concentrata su argomenti poco importanti, così da portare il comune cittadino ad interessarsi a fatti in realtà insignificanti. Per esempio, l’esasperata concentrazione su alcuni fatti di cronaca (Bruno Vespa é un maestro).

2) Il principio del problema-soluzione-problema: si inventa a tavolino un problema, per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Un esempio? Mettere in ansia la popolazione dando risalto all’esistenza di epidemie, come la febbre aviaria creando ingiustificato allarmismo, con l’obiettivo di vendere farmaci che altrimenti resterebbero inutilizzati.

3) La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socio-economiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni 80 e 90: stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.

4) La strategia del differimento. Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, al momento, per un’applicazione futura. Parlare continuamente dello spread per far accettare le “necessarie” misure di austerità come se non esistesse una politica economica diversa.

5) Rivolgersi al pubblico come se si parlasse ad un bambino. Più si cerca di ingannare lo spettatore, più si tende ad usare un tono infantile. Per esempio, diversi programmi delle trasmissioni generaliste. Il motivo? Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni, in base alla suggestionabilità, lei tenderà ad una risposta probabilmente sprovvista di senso critico, come un bambino di 12 anni appunto.

6) Puntare sull’aspetto emotivo molto più che sulla riflessione. L’emozione, infatti, spesso manda in tilt la parte razionale dell’individuo, rendendolo più facilmente influenzabile.

7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità. Pochi, per esempio, conoscono cosa sia il gruppo di Bilderberg e la Commissione Trilaterale. E molti continueranno ad ignorarlo, a meno che non si rivolgano direttamente ad Internet.
 Imporre modelli di comportamento. Controllare individui omologati é molto più facile che gestire individui pensanti. I modelli imposti dalla pubblicità sono funzionali a questo progetto.

9) L’autocolpevolizzazione. Si tende, in pratica, a far credere all’individuo che egli stesso sia l’unica causa dei propri insuccessi e della propria disgrazia. Così invece di suscitare la ribellione contro un sistema economico che l’ha ridotto ai margini, l’individuo si sottostima, si svaluta e addirittura, si autoflagella. I giovani, per esempio, che non trovano lavoro sono stati definiti di volta in volta, “sfigati”, choosy”, bamboccioni”. In pratica, é colpa loro se non trovano lavoro, non del sistema.

10) I media puntano a conoscere gli individui (mediante sondaggi, studi comportamentali, operazioni di feed back scientificamente programmate senza che l’utente-lettore-spettatore ne sappia nulla) più di quanto essi stessi si conoscano, e questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un gran potere sul pubblico, maggiore di quello che lo stesso cittadino esercita su sé stesso.

Si tratta di un decalogo molto utile. Io suggerirei di tenerlo bene a mente, soprattutto in periodi difficili come questi.

Fonte : Informazione libera