venerdì 16 dicembre 2011

Se politica e lavoro parlano lingue diverse


16/12/2011

DANIELE MARINI*dalla stampa

L’ Italia delle imprese e della politica ha un problema di codici: parlano linguaggi diversi e non fanno sistema. Se negli anni recenti escludiamo il percorso avviato per arrivare alla firma dei trattati di Maastricht (1992) e il progetto Industria 2015 (2006), poco resta nella nostra memoria di quale strada abbia intrapreso collettivamente l’Italia per il suo domani. Questo divario Politica/imprese è testimoniato da diverse ricerche realizzate negli anni recenti (Fondazione Nord-Est). La grande maggioranza degli imprenditori ritiene di avere un peso rilevante sul piano economico (69,5%), cui però non corrisponde la percezione di un altrettanto valore e ascolto in ambito politico e istituzionale (50,1%).

È un divario che ha caratteri diversi, a livello settoriale e territoriale, ma che rappresenta un sentire comune. Incrociando la dimensione regionale e quella nazionale è anzi possibile costruire un indicatore che misura l’autopercezione della marginalità o della centralità nei confronti dell’economia e della politica: ne scaturisce un continuum lungo il quale dislochiamo le imprese che si considerano totalmente «marginali» (sia sotto il profilo economico, sia politico); quelle che percepiscono esclusivamente una centralità «economica» (senza alcun peso politico) o, all’opposto, «politica» (senza peso economico); infine, quante considerano godere di una «centralità» totale (sia economica che politica).

L’esito complessivo è la cartina di tornasole delle questioni territoriali del nostro Paese, con alcune distinzioni che modificano i tradizionali stereotipi. Ad esempio una delle principali è riassumibile nella formula della «questione settentrionale»: aumenta una situazione di disagio del Nord produttivo. A sua volta, però, fortemente articolata al suo interno. Da un lato, infatti, abbiamo gli imprenditori lombardi che negli anni mantengono un’elevata percezione di centralità sia in ambito economico che politico (74,7%). Molto diversa è la questione se la osserviamo dal resto del Nord Ovest (41,7%) e dal NordEst (37,7%), dove la percezione di centralità è assai più modesta. Realtà regionali di analogo forte impianto industriale riverberano quindi percezioni diseguali, legate alle diverse storie economiche: il Nord Ovest che risente della crisi delle grandi imprese industriali con le ricadute sull’indotto di Pmi.

La Lombardia, con Milano, che sembra mantenere una posizione di leadership (almeno nella percezione) in virtù di essere un crocevia internazionale. E il Nord-Est che ha perso lo smalto delle performance degli Anni ‘90 e sente il morso della competizione globale. Storie, istanze e condizioni diverse che raccontano di un Nord composito, dove le imprese piemontesi sembrano manifestare dinamiche maggiormente similari a quelle nordestine, piuttosto che a quelle lombarde. Ma tutte accomunate dal medesimo problema: la perdita di competitività nel confronto dei nuovi mercati. Di più.

Nella lunga crisi, trattandosi di economie fortemente esposte ai confronti internazionali, aumenta la percezione di marginalità tipica di un sistema produttivo posto in una condizione di stress crescente, sia sotto il profilo economico che politico: il NordOvest passa dal 19,1% al 27,2%; la Lombardia dal 2,5% al 5,2%; il Nord-Est dal 15,1% al 19,7%. Quando si sottolinea che la politica deve riprendere un dialogo con il territorio, dovrebbe ripartire da qui: dal ripristinare di un legame con gli interlocutori che quotidianamente sperimentano le sfide della competizione. E farlo non solo quando la crisi si fa sentire, per poi scomparire.
*Università di Padova e Direttore scientifico Fondazione Nord Est



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