di SERGIO CESARATTO – Malata la finanza o l’economia reale?
In occasione di un convegno per il 40° anniversario della Fondazione Brodolini mi sono trovato a discutere la relazione di uno studioso tedesco, C.Kellerman, il quale sosteneva che causa della crisi finanziaria e degli squilibri globali ed europei fosse stata la finanza sregolata. Questo mi ha consentito talune considerazioni su un frequente fraintendimento nella sinistra secondo il quale, in fondo, l’economia reale sarebbe sana mentre è l’economia finanziaria a esser malata. Questa tesi a ben vedere, è la medesima con cui gli economisti ortodossi – inclusi quelli più liberal come Stiglitz o Krugman – si sono difesi per non aver visto l’arrivo della crisi (non sapevamo, non vedevamo). E’ vero, Kellerman metteva anche la crescente iniquità nella distribuzione del reddito fra le ragioni della crisi, ma senza connetterla con l’altra presunta causa.
E’ a nostro avviso sbagliato attribuire le cause della crisi alla cosiddetta “economia di carta”, espressione che piace a sinistra. Il capitalismo è sola cosa, nei suoi aspetti “reali” e finanziari, ed è un sistema intimamente perverso, come lo definiva il grande economista polacco Michal Kalecki, il Keynes marxista. La sua contraddizione fondamentale è nella diseguale distribuzione del reddito poiché a essa si connette la cronica scarsità di domanda effettiva, come Marx, Kalacki e Keynes ci hanno insegnato. Visto dal punto di vista dei capitalisti il problema è quello della vendita, della realizzazione come si esprimeva Marx, del sovrappiù, quella parte del prodotto sociale che non va ai lavoratori e di cui i capitalisti si appropriano – questo approccio alla distribuzione del reddito fu di Ricardo e fu ripreso in epoche diverse da Marx, Sraffa e Garegnani, da poco scomparso. Poiché la domanda per le merci che sono contenute nel sovrappiù che proviene dai capitalisti medesimi, domanda di beni di lusso e di beni di investimento, è generalmente insufficiente ad assorbirlo, ecco che si pone per essi il problema di trovare dei “mercati esterni”, come li definirono Rosa Luxemburg e Kalecki, dove collocarlo. In tempi recenti questa contraddizione del capitalismo si è ampliata dagli anni ‘80, quando a causa della fine della sfida Sovietica e con la globalizzazione i rapporti di forza fra capitale e lavoro si sono spostati a favore dei primi e la distribuzione del reddito è progressivamente mutata a favore del sovrappiù dei capitalisti (cioè dei profitti). Ma se i lavoratori consumano di meno, dove collocare il crescente sovrappiù?
Nell’esperienza USA un mercato esterno è stato trovato nell’indebitamento del ceto-medio e successivamente di strati sempre più marginali della popolazione (i famosi mutui “sub-prime”), ciò che ha sostenuto la domanda di abitazioni e di beni di consumo. Nell’esperienza europea i capitalisti del “core-Europe” hanno trovato nella periferia europea il proprio “mercato esterno” dove smaltire il loro enorme sovrappiù. Come quel sovrappiù sia stato frutto delle loro politiche di moderazione salariale, in particolare nei settori non legati alle esportazioni, è stato egregiamente illustrato al convegno dalle relazioni di un giovane economista tedesco Fabian Lindner e di S.Lehndorff dell’Università di Duisburg-Essen.
L’indebitamento delle famiglie americane, o spagnole, o irlandesi, o dello Stato greco (Karamanlis era un protetto della Merkel) è stato consentito dalla preventiva e disinvolta espansione del credito a buon mercato da parte del sistema finanziario ben sostenuto dalle banche centrali americana ed europea. Alcuni amici tedeschi si sono risentiti – mi è parso – quando ho fatto loro presente che sono i governi ad aver favorito questo ruolo della finanza: il governo tedesco sapeva, per esempio, benissimo quello che facevano le proprio banche, in primis quelle semi-pubbliche, in quanto funzionale al modello neo-mercantilista prescelto. Le banche tedesche, oltre a finanziare l’indebitamento della periferia europea si riempivano anche di “titoli tossici” americani. Come si vede economia reale, finanza e Stati nazionali sono un tutt’uno nel capitalismo. La finanza interagisce con l’economia reale in una varietà di maniere – oltre a quelle normalmente considerate “sane” del credito prudentemente elargito a famiglie e imprese. Per esempio le bolle borsistiche o immobiliari danno l’impressione alle famiglie di aver già risparmiato abbastanza, questo stimola consumi e domanda aggregata (gli economisti lo chiamano “effetto ricchezza”); la crescita economica a sua volta appare giustificare gli eccessi di borsa. Ma, di nuovo, attenzione: qui non c’è una finanza malata; tutto questo è funzionale a sostenere l’economia reale con gli Stati condiscendenti. Malato non è un aspetto del capitalismo, lo è tutto.
Il capitalismo è dunque perverso. L’indebitamento dei “mercati esterni” può risultare a un certo punto insostenibile, se qualcuno chiama il bluff, per esempio resistendo a finanziare ulteriormente lo smaltimento del sovrappiù concedendo ulteriore credito: così come se qualcuno lo chiama quando capisce che le bolle sui titoli azionari sono andate molto oltre il valore reale delle imprese. E’ il capitalismo, bellezza! Ce ne dovremmo ricordare e ricominciare a pensare nuovamente a forme di economie diverse, al socialismo.
da ttp://politicaeconomiablog.blogspot.com/
Sergio Cesaratto
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