venerdì 1 aprile 2011

Popoli in Fuga
di Laura Boldrini
Da Repubblica

Attenzione alle parole

In questi giorni il dibattito pubblico sugli arrivi via mare a Lampedusa  è più che mai acceso e confuso. Nei giornali, come nelle trasmissioni televisive e radiofoniche sia i conduttori che gli ospiti – spesso esponenti delle istituzioni e ministri – per definire coloro che sbarcano sulle coste italiane alternano indistintamente parole come profughi, clandestini, extracomunitari, rifugiati.
Il termine che va per la maggiore, il più inflazionato e utilizzato è senza dubbio “clandestino” che porta sempre con sé qualcosa di negativo, un carico di pregiudizio. Clandestino è una persona che si deve nascondere, che è  pericolosa: usare questo termine significa bollare le persone che arrivano in Italia prima di sapere chi sono.
Vengono chiamati “clandestini” i migranti irregolari che arrivano via mare per motivi economici, per cercare un lavoro e mandare i soldi a casa. Ma anche chi sulla carretta c’è dovuto saltare per mettersi in salvo e arrivare in un posto sicuro, i richiedenti asilo.
Quando si scappa dal proprio paese perchè in fuga dalla guerra, dalla violenza, dalla violazione dei diritti umani e dalla persecuzione, lo si fa con ogni mezzo. Perchè non si ha scelta e magari neanche i documenti. Spesso si è costretti a rischiare la propria vita. Queste persone, per il fatto che arrivano via mare, in Italia vengono subito etichettate “clandestini”.
Giuridicamente esistono i migranti irregolari e i richiedenti asilo.
Usare la parola “clandestino” non è un’ esemplificazione. Significa contribuire ad alimentare la paura, l’ansia e avvelenare il pozzo poco a poco. Perchè il linguaggio condiziona fortemente la percezione del fenomeno.
Oggi l’opinione pubblica invece di mettersi nella condizione di favorire l’accoglienza, si sente messa di fronte a un’invasione di persone minacciose. E questo stato d’animo – come stiamo vedendo in questi giorni in varie parti del Paese – ha delle ripercussioni negative anche sull’organizzazione stessa dei piani di intervento. In molti si oppongono e manifestano contro la tendopoli vicino casa. Vedendo tutto ciò viene da chiedersi dove sia finita la solidarietà italiana.
Nel 1999 durante la crisi del Kosovo tutti volevano fare qualcosa, o inviare aiuti e doni o organizzare l’accoglienza sul territorio italiano, una vera gara di solidarietà tra enti locali, associazioni e circoli. Oggi tutto ciò sembra solo un lontano ricordo. Forse è giunta l’occasione di recuperare le nostre migliori tradizioni e di riappropriarci di quei valori di umanità e generosità che nel tempo hanno sempre caratterizzato la cultura italiana.
Scritto giovedì, 31 marzo 2011

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