martedì 8 febbraio 2011

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Verso una riconfigurazione dell'intera Unione Europea

Bruxelles: Germania e Francia presentato il patto per la competitivita'

di Martino Conserva
L'Europa volta pagina e va oltre la crisi dell'euro, verso una riconfigurazione complessiva non solo dell'eurozona ma dell'intera Unione Europea. Perplessita' della CE. A marzo le decisioni finali.
La novità era nell’aria da tempo, ma la sua presentazione ufficiale a Bruxelles non poteva non suscitare vive reazioni, positive e negative. Reazioni giustificate, dal momento che siamo forse in vista di un passaggio cruciale: l’eurozona cesserà di avere una moneta unica senza una politica economica unica.
E’ questo l’ambizioso obiettivo del “patto per la competitività” presentato a Bruxelles congiuntamente da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy in occasione del vertice europeo del 4 febbraio. Un piano che in prospettiva condurrà ad una riconfigurazione complessiva non solo dell’eurozona ma dell’intera Unione Europea.
I punti essenziali del “patto per la competitività” sono questi:
- l’imposizione di un limite all’indebitamento pubblico con valenza giuridica a livello nazionale (ad esempio della Germania, dove con il 2009 è stata inserita nel dettato costituzionale la prescrizione – a partire dal 2016 – di contenere il disavanzo federale entro lo 0,35% del prodotto interno lordo e di eliminarlo completamente a partire dal 2020);
- l’eliminazione di qualsiasi forma di indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita;
- l’aumento dell’età pensionabile, sulla base dell’andamento demografico atteso;
- l’armonizzazione dell’imposizione fiscale a carico delle società;
- l’introduzione di regimi definiti per la soluzione delle crisi del settore bancario;
- l’assunzione di impegni precisi in materia di istruzione e ricerca.
Si tratta di un programma apertamente mirato a fare compiere un salto qualitativo all’integrazione economica ai 17 paesi membri della zona euro – e in prospettiva all’intera Unione. Quel salto qualitativo che il Patto di stabilità e crescita di Maastricht, viziato dai troppi compromessi raggiunti nel corso della sua definizione, non era stato in grado di realizzare.
«Le politiche finanziarie, economiche e sociali – si legge nel documento presentato a Bruxelles - devono essere maggiormente coordinate a livello nazionale» di modo che ogni singolo paese sia tenuto ad «aderire a quelle che sono, caso per caso, le prassi migliori per migliorare la performance complessiva dell’eurozona».
Il controllo dei miglioramenti dovrà prevedere l’impiego di “target oggettivi” basati su indicatori verificabili. Questi assicureranno la necessaria convergenza in materia di costo del lavoro, sostenibilità dei sistemi pensionistici, ecc. Una meta raggiungibile, se non si perderà di vista la « stretta connessione oggettiva fra le questioni della concorrenzialità, della crescita e del rigore in politica fiscale».
La proposta, come era prevedibile, ha suscitato polemiche e critiche, sia si sostanza sia di forma. Oltre allo scontato scetticismo da parte dei rappresentanti dei paesi che in fatto di performance economico-finanziaria sono più lontani dall’“economia-modello” che in questa fase la Germania indubbiamente rappresenta, è il caso di registrare il dissenso fra Angela Merkel e il commissario europeo José Barroso, deciso a non permettere che la CE sia scavalcata o ridotta ad un puro ruolo di supervisione del processo, così come potrebbe accadere se il ruolo dirigente dovesse stabilmente basarsi su di un’intesa fra vertici politici.
Le obiezioni di Barroso toccano innegabilmente un nervo scoperto: per quanto remoto, il rischio di un ribaltamento degli equilibri politici nazionali esiste anche per i paesi che hanno oggi una funzione dirigente nell’eurozona e nell’UE – anche se la probabilità di affermazione di partiti dichiaratamente antieuropeisti in Germania e Francia appare oggi molto, molto scarsa.
D’altra parte, molte obiezioni hanno il fiato corto: in realtà la maggior parte degli elementi del piano franco-tedesco sono da sempre parte dei principi su cui è stato costruito il Patto di stabilità e ormai da tempo figurano fra le proposte di riforma della normativa in materia di bilancio avanzate dalla CE e in discussione nelle sedi dell’Ecofin e del Parlamento europeo.
La novità è che ora dai principi si passa ai fatti concreti. E la prima scadenza non è poi molto lontana: il prossimo vertice è in programma per il 24 e 25 marzo, e per quella data – magari ricorrendo anche ad un summit straordinario agli inizi del mese – i leader europei dovranno avere maturato una posizione comune. In ogni caso – si assicura da Bruxelles – tutto avverrà «nel rispetto del Trattato» e delle prerogative della CE. Al di là delle singole misure e del loro aspetto tecnico, qual è il significato della presentazione del “patto di competitività”?
Una prima importante constatazione è che, con il vertice di Bruxelles del 4 febbraio, si può parlare di inizio dell’“uscita dall’emergenza” per l’Unione Europea. Per la prima volta dalla crisi fiscale greca il dibattito torna a vertere su misure di carattere positivo e di ampio respiro. La questione della “barriera difensiva” attorno all’euro non è stata certamente accantonata, anzi; ma l’avere rimesso al centro della discussione la questione delle modalità del governo economico dell’UE va ben oltre le dichiarazioni di impegno ad oltranza alla difesa dell’euro – soprattutto se letta assieme alla recentissima svolta della Banca centrale europea in direzione di una maggiore attenzione alla ripresa dell’inflazione.
In sostanza, i vertici europei voltano pagina. Impostata la necessaria rete di misure a difesa della moneta unica, la “crisi dell’euro” viene riconosciuta per quello che è: l’amplificazione mediatica di difficoltà reali di singole economie europee, mirata a deviare l’attenzione dei mercati dalle questioni più scottanti della congiuntura economica e finanziaria internazionale (in primo luogo, la condizione di strutturale insolvenza del sistema federale statunitense).
Vi è chi ha paragonato l’ossessione della stampa specializzata britannica (in testa il Financial Times, che ogni giorno ospita almeno un parere, più o meno illustre, a sostegno della tesi dell’imminente crollo dell’euro) ad un remake della ormai dimenticata emergenza da “influenza suina”.
Da Bruxelles si risponde non con un “piano anticrisi” – come qualcuno insiste a definirlo, anche in Italia – ma con una proposta di riassetto generale della gestione economica.
In secondo luogo – ma non in ordine di importanza – il “patto di competitività” rappresenta un deciso balzo dal terreno della tattica e della tecnica finanziaria a quello della strategia e della politica. Una svolta salutare in direzione e della trasparenza – e conseguentemente di una maggiore efficacia. Perché non è certamente il “patto di competitività” a causare una politicizzazione del dibattito sulla riforma della governance europea. Al contrario. Questo dibattito è sempre stato di natura politica, dietro il paravento della terminologia amministrativa e finanziaria entro i cui confini si è finora dispiegato.
Lo è sempre stato nella misura in cui esso coinvolge il destino stesso del progetto europeo.
Al vertice di Bruxelles il velo è caduto e la riforma della governance è apparsa in tutti i suoi risvolti di natura politica: Eurolandia deve in prospettiva diventare quell’entità statale sovranazionale che è implicitamente contenuta nell’intero progetto di integrazione europea, ovvero rassegnarsi a passare in secondo piano nella generale riconfigurazione dell’assetto geopolitico e geoeconomici mondiale.
I leader europei che si sono lamentati per le modalità con cui il progetto è stato presentato, giudicate eccessivamente sbrigative (“prendere o lasciare”, si è detto) dimostrano uno scarso senso della situazione.
Per decenni la costruzione europea si è potuta basare sul rispetto ad oltranza del principio del consenso, verrebbe voglia di dire dell’unanimità. Questo perché circostanze favorevoli sul piano politico ed economico internazionale hanno consentito all’Europa di condurre le necessarie riforme rispettando un calendario soltanto “interno”, le scadenze dettate appunto dai tempi necessari alla maturazione del pieno consenso, rinunciando o rinviando l’adozione di quelle misure incapaci di raccogliere il favore generale. Oggi non è più così.
Oggi sono le circostanze esterne a dettare i tempi e spesso anche i modi. Va anzi riconosciuto che i dirigenti europei – o almeno molti fra di essi – hanno mostrato inaspettate doti di flessibilità nell’adattarsi ad un cambio di passo così repentino. Infine, la presentazione della proposta di un nuovo patto europeo conferma la chiave di lettura degli eventi che avevamo anticipato nella primavera del 2010, commentando i primi passi verso quello che allora veniva definito il “patto di consolidamento”. Allora fu una decisione unilaterale della Germania (il divieto al cosiddetto naked short selling), e le polemiche che ne seguirono, ad evidenziare le linee di tendenza.
In primo luogo, il formarsi de facto un asse dirigente per l’Europa, comprendente Germania, Francia, la CE e la BCE. In secondo luogo, con la creazione del gruppo di lavoro sul rafforzamento della governance economica, iniziava a prendere corpo la proposta tedesca trasferire la gestione della politica economica dell’eurozona ad un’entità esterna rispetto all’Eurogruppo. Indipendentemente delle singole iniziative, degli enti e delle sigle, indipendentemente dal prevalere o meno degli “strumenti intergovernativi” criticati dal presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker, quanto è avvenuto da allora sino alla proposta di Angela Merkel al vertice di Bruxelles, la direzione è quella: il passaggio della politica economica europea nelle mani di un’entità sovrastatale, il cui corollario inevitabile è – in prospettiva - la rinuncia alla piena sovranità nazionale. Lo ripetiamo: le modalità e le sigle hanno un’importanza relativa, quello che conta è che il processo resti in marcia.
08/02/2011
Fonte: il quotidiano ipsoa

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