mercoledì 29 maggio 2013

Politica e menzogna

Luciano Violante nel suo libro recente su Politica e menzogna (Einaudi 2013), dopo avere accompagnato il lettore attraverso un vasto panorama di come l’albero della menzogna non abbia mai smesso di dare frutti politici e di come nell’età dell’informazione sia più robusto che mai, svolge alcune considerazioni su come si possa difendere la democrazia, intesa come la forma politica più di ogni altra fondata sulla trasparenza della verità . E qui emerge la necessità di una opposizione. Non una qualunque: «Tutti gli studiosi dei sistemi politici – scrive Violante – ritengono che una opposizione credibile sia essenziale presupposto per la trasparenza del potere politico». L’opposizione è la parte che in un sistema democratico si prepara ad andare al governo nella legislatura seguente e intanto svolge un compito di controllo su chi sta governando. Dunque è essenziale che opposizione ci sia. Ma dov’è oggi l’opposizione in Italia? Il Pd, che aveva raccolto la maggioranza dei voti su un programma di alternativa, oggi sta governando: ma secondo il programma della forza politica contro cui aveva chiesto voti. Ne nasce un disorientamento e una sfiducia devastanti in mezzo a chi è interessato al cambiamento politico: parliamo dei circa 9 milioni di italiani per i quali il lavoro è un’entità fantomatica, inesistente o inafferrabile. La democrazia italiana era fondata sul lavoro: se il lavoro non c’è non c’è nemmeno la democrazia . Così le forme parlamentari diventano una imitazione della democrazia, un gioco teatrale. Il disordine è arrivato al punto che quello che fu il grande partito di opposizione oggi si astiene per lealtà verso il governo dalla presenza nelle piazze dove i lavoratori manifestano. C’è di che risuscitare la definizione di “cretinismo parlamentare”. Ma non è più tempo di rimpianti: oggi il problema della verità come unica via per tornare a una effettiva democrazia passa attraverso un appuntamento non più rinviabile. Dobbiamo sapere chi e perché ha fatto fallire la candidatura di ben tre uomini del centrosinistra a Presidente della Repubblica. E se questo potesse significare l’espulsione di chi ha puntato nel segreto dell’urna al fallimento di quelle candidature ben sapendo che così si consegnava la vittoria al populismo di destra, tanto meglio. Preoccupa il fatto che a questo chiarimento non si voglia arrivare e che si rinvii il più possibile l’appuntamento facendo di tutto per nascondere le divisioni nelle nebbie di quel gergo politico che, come scrive Violante, è una «lingua di legno».

Cultura, diritti, democrazia. Ecco le 15 idee di Salvatore Settis per l’Italia


Il mondo della cultura scende in campo. left organizza un convegno attorno alla figura di Salvatre Settis. L’archeologo della Normale di Pisa affida a left il suo “manifesto”, che verrà presentato a Roma giovedì 30 maggio al teatro Eliseo
Intervengono:
Fabrizio Barca, Pippo Civati, Michele Dantini, Vittorio Emiliani, Vladimiro Giacchè, Ernesto Longobardi, Gennaro Migliore, Massimo Monaci, Tomaso Montanari, Andrea Ranieri, Maria Letizia Sebastiani, Renato Soru, Carlo Testini, Adriano Zaccagnini, Teatro Valle Occupato
Le 15 idee di Settis
1. La crisi della democrazia rappresentativa, presente ovunque, è particolarmente grave in Italia, a causa di due peculiarità del suo sistema politico: la legittimazione di un leader (Berlusconi) che non avrebbe titolo a esser tale sia per i conflitti di interesse che per i reati comuni di cui è accusato, e una legge elettorale (il Porcellum) iniqua e anticostituzionale.
2. Un governo di “larghe intese”, che capovolge il responso delle urne, aggrava ulteriormente questa crisi, inseguendo l’impossibile modello di una democrazia senza popolo.
3. La natura estrema di questa crisi non colloca l’Italia fuori dal contesto mondiale. Al contrario, ne fa un caso-limite (per ciò stesso esemplare) di crisi della democrazia. Quello che accadrà in Italia (la vittoria della casta politica contro l’elettorato, o la riscossa dei cittadini) è perciò di grande rilevanza nel quadro globale. Grande è la nostra responsabilità.
4. Ingranaggio-chiave della crisi della democrazia è la dominanza dei mercati, cioè di persone, gruppi di interesse, lobby bancarie e finanziarie che determinano il corso dell’economia. Queste oligarchie, in quanto sfuggono ad ogni controllo democratico, sono la vera e sola “antipolitica”. L’Europa si è ridotta a essere il territorio di caccia di queste oligarchie e tecnocrazie, e le scelte politiche italiane viaggiano con questo «pilota automatico», secondo la frase di Mario Draghi. Su questa tendenza si sono appiattite in Italia tanto la destra quanto la “sinistra”, che ha con ciò rinunciato alla propria missione storica di difensore dei diritti dei cittadini, nascondendosi dietro un passivo “ce lo chiede l’Europa”.
5. La dominanza dei mercati, con la complicità della politica, genera (in Italia come altrove) un’“austerità” che non crea ricchezza, ma la concentra nelle mani di pochi; pone il lavoro e la dignità della persona al servizio del mercato; mortifica libertà e uguaglianza comprimendo la spesa e i servizi sociali; innesca disoccupazione, disagio sociale, emarginazione, povertà.
6. L’anestesia che ci viene proposta come “pacificazione” o “responsabilità” consiste non solo nell’annientare le differenze fra “destra” e “sinistra”, ma anche nel chiudere gli occhi davanti ai problemi dei cittadini in ossequio alla dittatura dei mercati. Questa è stata la base del “governo tecnico”, fase di rodaggio delle “larghe intese” oggi all’opera. Ma gli inviti all’amnesia vanno respinti perché sono contro gli interessi dei cittadini e contro la legalità costituzionale.
7. Il progetto di “democrazia senza popolo” sussiste perché l’antica funzione dei partiti come luogo di riflessione e di progettazione è morta. Quel che resta degli apparati di partito si è trasformato in un macchinario del consenso, fondato sulla perpetuazione dei meccanismi e delle caste del potere.
8. Una parte larghissima del Paese esprime una radicale opposizione a questo corso delle cose. Lo fa secondo modalità diverse, anzi divergenti: (a) la sfiducia nello Stato e il rifugio nell’astensionismo; (b) gesti individuali di protesta (fino al suicidio); (c) vasti movimenti che tendono alla rappresentanza parlamentare e alla forma-partito, come il M5s; (d) piccole associazioni di scopo, dichiaratamente non-partitiche, per l’ambiente, la salute, la giustizia, la democrazia. Queste ultime sono ormai alcune decine di migliaia, e coinvolgono non meno di 5-8 milioni di cittadini. È a partire dall’autocoscienza collettiva generata da questo associazionismo diffuso (ma anche nei sindacati) che si può avviare la necessaria opera di restauro della democrazia.
9. Queste forme di opposizione “vedono” quel che sembra sfuggire a chi ci governa: il crescente baratro che si è aperto fra l’orizzonte delle nostre aspirazioni e dei nostri diritti e le pratiche di governo. Tuttavia, le associazioni e i movimenti, pur generando anticorpi spontanei alle pratiche antidemocratiche, stentano a trovare un denominatore comune, un manifesto che possa tradursi in azione politica.
10. Questo manifesto esiste già. È la Costituzione della Repubblica. Essa va studiata e rilanciata come la Carta dei diritti della persona e della collettività, che corrisponde in grandissima parte all’orizzonte delle aspirazioni e agli anticorpi spontanei della protesta.
11. Costituzione alla mano, l’universo dei movimenti e delle associazioni si può rivelare a un tempo stesso come il sintomodi un malessere e la cura della democrazia italiana. Sintomo, perché mette allo scoperto il carattere anti democratico della politica “ufficiale”. Cura, perché i movimenti sono un serbatoio di idee, di elaborazioni, di progetti, di riflessioni, nell’esercizio del diritto di resistenza (che, secondo la Costituzione della Repubblica Partenopea del 1799, è «il baluardo di tutti i diritti»).
12. Questa forma di resistenza civile in nome del bene comune (che la Costituzione definisce “interesse della collettività” o “utilità sociale”) va intesa come adversary democracy: e cioè come l’esercizio pieno della cittadinanza, che non si esaurisce nel voto, ma si estende a una continua vigilanza critica e capacità propositiva. Essa non sostituisce la rappresentanza politica, ma si affianca ad essa, la controlla e la stimola. Non è contro la democrazia: al contrario, intende salvare la democrazia mediante la partecipazione dei cittadini, secondo il disegno della Costituzione.
13. La Costituzione non va intesa come una litania di articoli staccati, ma come una salda architettura di principi, coerente e inscindibile. L’adversary democracy va esercitata partendo simultaneamente dalla consapevolezza dei propri diritti e dalla difesa della legalità costituzionale. In nome della Costituzione vanno rimesse in onore le vittime sacrificali della presente dittatura dei mercati: le regole della politica e i pilastri del progresso sociale (politiche del lavoro, welfare state, diritto alla cultura e alla salute).
14. Nel crepuscolo della democrazia, è possibile, desiderabile, necessario ripartire dai movimenti per riformare i partiti e i sindacati, per ricreare la cultura politica che muove le regole.
15. Salvaguardare la Costituzione negando legittimità a qualsivoglia “Costituente” autonominatasi è precondizione necessaria del ritorno a una piena democrazia costituzionale. È urgente, piuttosto, l’alfabetizzazione costituzionale dei cittadini, simile a quella promossa dal ministero per la Costituente (governi Parri e De Gasperi, 1945-46). Perché «ogni legislatore dev’esser guidato, sorretto, confortato dalla coscienza del suo popolo»
di  (A.C. Jemolo), da LEFT

martedì 28 maggio 2013

Poteri forti in una Regione debole

Lucida analisi, sui "Poteri" che condizionano la vita in questa Regione.
di Michele Finizio
Qui, da almeno 20 anni,  il potere è in pochi fondamentali e “strategici” settori: l’energia, il petrolio, l’acqua, i rifiuti. E’ chiaro che in questi settori i player principali sono L’Eni, L’Enea, La Total, La Shell, L’Edf, la Fiat insieme alle loro articolazioni societarie.  Tutti, in un modo o nell’altro collegati da interessi reciproci. Intorno a questa “aristocrazia” di interessi orbitano attori secondari locali, funzionali agli scopi economici e finanziari dell’Olimpo nazionale e multinazionale. Si tratta di poteri subordinati che hanno un ruolo fondamentale sul territorio. La Società Energetica Lucana, L’acquedotto Lucano, in primo luogo. Intorno a questi poteri subordinati si espande un arcipelago di enti e istituzioni da tenere necessariamente al guinzaglio. E sono in prima battuta l’Arpab, Tecnoparco, i dipartimenti regionali della Sanità, dell’Ambiente, delle Attività produttive e delle Infrastrutture. In sostanza la Politica regionale. Questi ultimi organismi, articolati nelle connessioni vitali con i poteri subordinati e con i Poteri superiori, funzionano da service governato dalla Politica locale e dalle sue ramificazioni territoriali di base. Insomma la Basilicata è “gestita” da Roma e dalle dinamiche di affari internazionali che si sviluppano nei palazzi romani e delle altre capitali europee.
“La Regione modello”
Spesso i cittadini non capiscono le ragioni per cui la Basilicata in diverse circostanze e in anni diversi è stata definita “Regione modello”, nonostante i disastri in ogni settore. Ebbene, i giudizi sulla Basilicata sono espressi sulla base di criteri e parametri che non appartengono alla vita reale dei cittadini. Tutto dipende dal tasso di obbedienza del sistema politico locale al Partito di Roma o al circolo degli affari nazionali e internazionali che vantano “ragioni superiori”.  Qualcuno in questi anni ha pensato che “non è facile opporsi a certi Poteri.” Meglio conviverci o ancora più opportuno allearsi e mettersi a disposizione. “Tanto loro vincono sempre.” Ma vince anche chi a Potenza e a Matera obbedisce.  A proposito dell’Eni il presidente della Basilicata conferma: “Il problema è che è molto difficile, per una Regione con un bilancio di due miliardi di euro e 500mila abitanti, trattare con un’azienda con un fatturato di 109 miliardi, 6 miliardi di utili e 75mila dipendenti. La sproporzione è lampante. E l’Eni non è più l’azienda totalmente pubblica di Mattei, che cercava sviluppo per il territorio e non profitti.” (Dichiarazione rilasciata nel luglio 2012 da Vito De Filippo al giornalista  Manuele Bonaccorsi pubblicata su www.left.it)
Poveri, ma interessanti
Questa dichiarazione si commenta da sola e ci spiega una delle ragioni fondamentali per cui la Basilicata è nelle condizioni che conosciamo tutti. Una politica soccombente, magari suo malgrado, e incapace negli anni di cogliere gli aspetti più oscuri di presunte scelte di sviluppo che si sono rivelate un vero boomerang per le popolazioni locali. Nel tempo si è resa sempre più evidente questa soccombenza. Oggi la Basilicata conta nello scacchiere nazionale e internazionale in proporzione agli interessi coltivati dai Poteri forti. La sua gente però conta meno di un fico secco. In questo scenario i poteri locali dei partiti e degli affari sono in fibrillazione e stanno cercando le loro collocazioni future sgomitando senza esclusione di colpi. Le dimissioni di De Filippo sono anche figlie di questa lotta. Una feroce battaglia interna sui cui pesa l’influenza di certi Poteri. Non è escluso che siano loro a decidere molte cose in questa Basilicata incapace di pensare a se stessa.


Lun, 27/05/2013 - 22:10

sabato 25 maggio 2013

terresconosciute: Benigni a Nova Siri

terresconosciute: Benigni a Nova Siri: Immaginate di essere presenti ad un evento pubblico, di presentazione dei candidati alla guida di una lista per le elezioni amministrativ...

giovedì 23 maggio 2013

Con la testa sotto il braccio L’apologo di San Dionigi


CULTURA

Con la testa sotto il braccio
L’apologo di San Dionigi


Una metafora della nostra
nuova condizione nell’era del web. Cosa cambia nella costruzione
e nella trasmissione
della conoscenza?
di MARCO BELPOLITI, dalla Stampa
Dionigi, vescovo di Parigi, deve essere decapitato per ordine dell’imperatore Domiziano durante una delle persecuzioni dei cristiani. L’esecuzione sarà eseguita su una collina. I soldati romani sfaticati gli mozzano la testa a metà del percorso. 

Si rialza, prende la testa sotto braccio e raggiunge la cima. Il filosofo ed epistemologo francese Michel Serres, uno dei pensatori più acuti del contemporaneo con i suoi Hermès (Minuit), pubblicati negli Anni Settanta, racconta questo apologo nel suo libro Non è un mondo per vecchi (Bollati Boringhieri): oggi la nostra testa intelligente fuoriesce dalla testa ossuta e neurale, e come il santo la teniamo sotto braccio.  
Possibile? Sì. È la scatola-computer, smartphone o tablet, cui deleghiamo facoltà che un tempo erano totalmente nostre: memoria potentissima ed estesa, immaginazione ricca di milioni d’icone, ragione che ci serve per risolvere decine di problemi. Cosa ci resta sulle spalle? L’intuizione innovatrice, dice l’epistemologo: «Caduto nella scatola, l’apprendimento ci lascia la gioia incandescente di inventare. Fuoco: siamo condannati a diventare intelligenti?». 

In questo pamphlet Serres affronta un problema che già si era già posto il suo collega Edgard Morin, quando aveva redatto per il ministero dell’Istruzione francese un rapporto sul futuro dell’apprendimento nelle scuole francesi: La testa ben fatta . Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero (Cortina editore). Quello della testa è un vecchio problema. Nel XVI secolo Montaigne, che disponeva nella sua biblioteca personale di circa mille volumi, aveva sostenuto che alla «testa ben piena» della cultura classica, precedente l’invenzione della stampa, bisognava sostituire la «testa ben fatta». Ma ora che la testa si trova in tasca, nella borsa o nello zaino, come deve essere? Ovvero: come procedere nella costruzione e trasmissione del sapere? 

Oggi i ragazzi – lo possono testimoniare gli insegnanti – non leggono né hanno più voglia di ascoltare l’esposizione orale di ciò che è scritto. È finita l’«era del sapere», dal momento che questo sovrabbonda da tutte le parti, nel web prima di tutto. È contenuto nei piccoli aggeggi situati vicino al portamonete e al fazzoletto. Nel contempo è anche finita anche l’«epoca degli esperti»: l’ha spiegato David Weinberger, ricercatore americano, in La stanza intelligente(Codice edizioni). 

La vecchia expertise, alla base della cultura degli esperti, nel passato si fondava su materie e discipline ben differenziate, a loro volta appoggiate a una gerarchia progressiva. Oggi il sapere del web è invece multidirezionale, e l’orizzontalità ha scalzato il vecchio sistema piramidale. Il sapere si presenta sotto forma di una ragnatela informe di connessioni, e il tutto appare non più come il patrimonio di un autore solitario, che lo trasmette ai suoi lettori, bensì della rete medesima. Si sono dissolte le varie Repubbliche delle Lettere, della Fisica, della Matematica, e tutti gli altri regni chiusi e ben governati da sacerdoti e papi. 

Proviamo a seguire Michel Serres. L’uso del computer e del cellulare, dice, porterà presto alla fine dell’«età dei decisori». Usando i nuovi media, gli strumenti elettronici, il corpo stesso dei ragazzi mal sopporta di essere passivo. Provate a entrare in un’aula scolastica, dove sotto i banchi, tra le mani, in mezzo ai libri, decine di mani toccano e sfiorano tastiere virtuali, connettendosi con il mondo e verificando quello che l’insegnante sta dicendo in quel momento. 

Nelle aule, ma anche fuori, non ci sono più solo spettatori, come nell’era televisiva. I ragazzi non sopportano più di stare al posto del passeggero passivo, mentre al volante c’è il docente. Sono entrati in fibrillazione. Vogliono decidere. 

Tutti valutano, a torto o a ragione, tutti. E siamo solo agli inizi del processo. Le vecchie appartenenze si frantumano una dopo l’altra: parrocchie, patrie, sindacati, partiti, famiglie. Dicono i ragazzi: ci prendete in giro perché usiamo la parola «amico» nei social network? Ma voi adulti siete sin qui riusciti a creare gruppi così consistenti, che ora arrivano a numeri stratosferici, comprendendo gran parte dell’umanità? Portando la loro testa sotto braccio alla maniera di san Dionigi, i giovani hanno capito una cosa: gli adulti temono che da queste nuove aggregazioni nascano forme politiche che spazzano via quelle vecchie diventate di colpo obsolete. 

Esercito, nazione, chiesa, popolo, classe, proletariato, famiglia, mercato, sembrano, dentro le teste sottobraccio, feticci del passato. Quando fu dato il voto a tutti, aggiunge Serres, si gridò allo scandalo; oggi la democrazia del sapere dà una «presunzione di competenza» in modo potenziale a tutti. I grandi apparati pubblici e privati, la burocrazia, i media, la pubblicità, i ceti tecnocratici, le imprese, le università, le amministrazioni grandi e piccole, ricorrono alla vecchia «presunzione d’incompetenza» e trattano il grande pubblico come una massa di ignoranti informatizzati, o poco più. Ed è anche vero che gli esperti non possono più ignorare quello che si dice in rete di ogni singolo problema da loro trattato. 

In La stanza intelligente David Weinberger fornisce decine di esempi. Quando la conoscenza entra a far parte di una rete, la persona più intelligente, scrive, non è quella che tiene la lezione dalla cattedra, e neppure la stessa folla delle persone presenti: «La persona più intelligente nella stanza è la stanza stessa».  

Certo non è tutto così semplice. Ci sono luci e ombre. Questi cambiamenti hanno il loro lato oscuro e problematico. Evgeny Morozov, studioso, ricercatore e blogger, insiste da tempo su questi problemi; ne parla ampiamente in L’ingenuità della rete (Codice edizioni), libro davvero indispensabile. Tuttavia il cambio di paradigma sembra avvenuto, e bisognerà tenerne conto, tanto nel campo dell’istruzione quanto della società, e ora anche della politica; il Movimento Cinque Stelle è solo l’avanguardia del futuro. La crisi che stiamo attraversando non è solo economica, bensì culturale. Leggete il libro di Michel Serres e lo capirete. 

sabato 11 maggio 2013

In piazza contro i giudici. E la Carta?


In piazza contro i giudici. E la Carta?

Finché la Repubblica si basa sulle regole scritte nella Costituzione è inammissibile che gli esponenti di un potere dello Stato manifestino contro l'esercizio di un altro potere.

11/05/2013
La "convocazione" della manifestazione. (Ansa).
La "convocazione" della manifestazione. (Ansa).
Comunque la si pensi, qualunque sia l’idea politica che si sostiene, finché resta in vigore l’attuale Costituzione, nessuno, men che meno chi fa parte di un partito al Governo, può parlare di «Magistratura fuori controllo». Se non altro perché è un ossimoro. Se la Magistratura fosse sottoposta al controllo di chicchessia, perderebbe le prerogative che la Costituzione le assegna: l’«autonomia» e l’«indipendenza», volute dai costituenti per garantire l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.

Per la stessa ragione non è ammissibile, stando dentro la  Costituzione, che chi rappresenta un potere dello Stato scenda in piazza contro l’esercizio di un altro potere. Indagare ed emettere sentenze, senza obbedire ad altri che alla legge, è il dovere della Magistratura. I magistrati non possono sottrarsi agli atti imposti da questo dovere e i cittadini, quand’anche fossero cittadini che governano o ambiscono a governare, non possono sottrarsi agli effetti di questo dovere.

Sul bilanciamento dei poteri si regge l’architettura dello Stato che abitiamo: chi rifiuta quel bilanciamento si colloca di fatto fuori dalla Costituzione. Un magistrato che non condivida una legge approvata dal Parlamento, qualora dubiti che sia una legge incostituzionale, può chiedere alla Corte Costituzionale di verificarne la compatibilità con la Carta, ma non può rifiutarsi di applicarla non appena sia entrata in vigore. Chi governa o legifera se non condivide nel merito una sentenza emessa da un Tribunale, può appellarsi contro di essa fin dove sia consentito nel processo, ma la deve rispettare e non può disconoscerla al di fuori dei gradi di giudizio. Diversamente saltano i paletti dello Stato democratico, disegnato dalla Costituzione repubblicana.

La cosiddetta "prima Repubblica", vituperata e difettosissima, ci ha regalato non pochi esempi di esponenti delle istituzioni processati o indagati. Alcuni ne sono usciti colpevoli, altri innocenti, altri prescritti, altri archiviati. Avranno certamente sofferto il controllo della giurisdizione, ma l’hanno rispettato. Non solo perché questo è l’atteggiamento si conviene allo stile di uomini di Stato, ma perché queste e non altre erano e sono le regole scritte nella Costituzione italiana. Tuttora valide, a dispetto delle apparenze.

di Elisa Chiari, da famiglia Cristiana

Ecco dove si può creare lavoro

La mancanza di lavoro è la più grande emergenza che deve affrontare il nostro Paese. Ma è inimmaginabile che la creazione di nuovi posti di lavoro possa essere affidata solo a qualche riduzione d’imposta o qualche incentivo alle imprese che assumono. È necessario un piano che cambi radicalmente l’allocazione delle risorse nei differenti settori produttivi.

di Luciano Gallino, da Repubblica, 10 maggio 2013
Il nuovo governo ha dichiarato di volersi impegnare a fondo allo scopo di creare lavoro. Nel perseguire tale proposito dovrà compiere diverse scelte, alcune che gli sono note perché presenti da tempo nella discussione su questo tema, altre pressoché ignorate ma non di minore importanza. Il suo problema è quindi duplice: evitare di fare le scelte sbagliate tra quelle note, ma anche individuare scelte originali, attinenti a situazioni di cui al momento sia il governo sia i commentatori che lo spronano ad agire per creare lavoro sembrano ignorare.

Prima di toccare queste ultime, è opportuno un cenno a una scelta che sarebbe sbagliata, ma ha già fatto capolino in alcuni interventi del presidente Enrico Letta. Consisterebbe nel rispolverare l’idea che la flessibilità dell’occupazione – tradotto: una maggior facilità di licenziare, o di assumere tramite contratti di breve durata – serva a creare un maggior numero di posti di lavoro. La flessibilità è un ritornello diffuso dall’Ocse quasi vent’anni fa, con l’ausilio di un marchingegno chiamato Epl (acronimo inglese che sta per “legislazione a protezione dell’occupazione”). Quanto più elevato l’indice Epl osservato in un paese, dicevano i rapporti Ocse a metà degli anni Novanta, tanto più alto il suo tasso di disoccupazione. Circa dieci anni dopo, dietrofront: un altro rapporto Ocse diceva che gli studi empirici condotti su tale correlazione portavano a risultati contrastanti, e per di più la loro solidità era dubbia. Altri rapporti apparsi in tempi più videll’elettronica hanno concluso che il rapporto tra rigidità della protezione dell’impiego e il tasso di disoccupazione è assai ambiguo. Ad onta della sua inconsistenza, il ritornello dell’Ocse ha fatto presa in molti paesi e un risultato lo ha sicuramente avuto. Con il rapporto Virville in Francia, le leggi Hartz in Germania, le riforme del mercato del lavoro italiane del 1997, 2003 e 2012, tutte effettuate all’insegna della flessibilità, o sono stati creati milioni di precari, oppure quelli che erano già precari sono stati mantenuti in tale stato. Parrebbe dunque giunto il momento di congedare definitivamente l’idea di flessibilità.

La situazione che impone oggi nuove scelte sul fronte dell’occupazione e delle politiche economiche è la sostituzione del lavoro umano con le tecnologie elettroniche.
È in corso da decenni, ma negli ultimi tempi ha fatto registrare sia una straordinaria accelerazione, sia una prepotente espansione in settori lavorativi e professionali che sembravano esserne immuni. Si sa qual è l’obiezione: la tecnologia crea tanti posti di lavoro quanti ne distrugge. Su tale assunto chi scrive ha espresso dubbi in un testo di quindici anni fa. Quel che sta succedendo con la diffusione mostra che esso non regge più. Recenti studi americani (per esempio Ford 2009, MacAfee e altri 2011) arrivano alla stessa conclusione: la tecnologia continua a creare posti di lavoro, ma ne sopprime molti di più. La differenza l’hanno fatta microprocessori sempre più potenti e minuscoli, e programmi (o software) sempre più complessi e intelligenti. Per cui da un lato il lavoro umano continua a venire espulso dalle fabbriche perché le auto, le lavatrici e i televisori li fabbricano oramai i robot, controllati da computer costruiti da altri computer. Dall’altro, la novità è che sia mansioni impiegatizie di medio livello, sia attività professionali di fascia alta sono sostituite da macchine. 

Non scompaiono soltanto l’impiegata del check-in all’aeroporto, il bigliettaio in stazione, la cassiera del supermercato, perché una macchinetta permette (o impone) al cliente di fare da solo, ovvero il libraio o il negoziante soppiantato dalla vendita in rete. Scompare anche il praticante con laurea e master di uno studio da avvocato, perché adesso c’è un software che in pochi secondi trova qualunque articolo di qualsiasi legge; il giovane architetto che trasformava in un dettagliato disegno tecnico lo schizzo del maestro, perché un computer lo fa meglio di lui; il matematico che disegnava complicati algoritmi per le transazioni di borsa computerizzate, perché ora che la sua banca ha acquistato un nuovo programma, di matematici gliene bastano due in luogo di dieci; l’insegnante delle medie che perde il posto insieme a metà delle colleghe, perché la sua materia gli studenti adesso la imparano con un sistema di e-learning che assegna pure i voti e fornisce consigli per studiare meglio. Risultato: senza scelte originali un tasso di occupazione intorno o al disotto del 5 per cento, il meno che si possa chiedere a una società decente, al posto dello scandaloso 12 per cento di oggi, l’Italia non lo rivedrà neanche fra trent’anni.

Con i suddetti sviluppi della tecnologia non siamo affatto dinanzi alla fine del lavoro, quale preconizzava Jeremy Rifkin dieci anni fa. Siamo dinanzi alla necessità di concepire in modo radicalmente diverso la creazione di occupazione e l’allocazione di questa a differenti settori produttivi. L’obiettivo primario dev’essere quello di creare posti ad alta intensità di lavoro. C’è soltanto da scegliere. Ci sono gli acquedotti che dalla sorgente al rubinetto perdono metà dell’acqua che convogliano e i beni culturali che cascano a pezzi. Ci sono milioni di abitazioni ancora costruite in modo da consumare energia in misura cinque o dieci volte superiore a quella necessaria per assicurare lo stesso livello di comfort e le scuole da mettere a norma per evitare che cacini schino in testa agli studenti. Ci sono migliaia di chilometri di torrenti e fiumi, e decine di migliaia di chilometri quadrati di boschi e terreni da sistemare affinché ogni volta che piove non ci scappi il morto e siano distrutte case e officine. C’è la metà almeno di ospedali da ristrutturare perché oggi terapie e degenze richiedono spazi organizzati in modo diverso rispetto a quando furono costruiti, mezzo secolo fa, e forse la metà degli edifici esistenti, in mezza Italia, che dovrebbero venire protetti dal rischio sismico con le tecniche oggi disponibili.

Tutto ciò significa milioni di posti ad alta intensità di lavoro, e qualifiche professionali che vanno dal manovale al perito all’ingegnere, che aspettano di venire creati a vantaggio dell’intero paese. Ci si potrebbero impegnare migliaia di piccole imprese, di cooperative, di artigiani, in parte forse coordinate da imprese pubbliche o private più grandi. E qui cade una seconda scelta originale che il governo dovrebbe decidersi a fare. È inimmaginabile che un’attività del genere si possa avviare con qualche riduzione d’imposta o qualche incentivo alle imprese che assumono e simili. È necessario un piano. Un piano che miri a collegare la creazione rapida di occupazione alla necessità di effettuare una transizione regolata di masse di lavoratori verso settori produttivi diversi da quelli tradizionali, dove essi saranno sempre di meno, e perché no a una idea un po’ più alta del paese in cui si vorrebbe vivere.

Se la sinistra abbandona il tema dei diritti nel deserto

Con l'accordo Pd-Pdl per il governo sembra debbano essere sgombrati dal campo della politica tutti i temi cosiddetti "divisivi", a cominciare da quelli etici. Si dimentica che democrazia è il contrario di tutto questo: è divisione, scontro tra visioni del mondo, rifiuto di un regno della Necessità cui soccombano le libere alternative. È possibilità e obbligo di occuparsi delle questioni più controverse.

di Barbara Spinelli, 8 maggio 2013, la Repubblica
C'era una volta Italia Bene Comune, ovvero Italia giusta: in mezzo a una crisi economica mai vista dopo il '45, la sinistra sembrò cercare la parola, che la squadrasse da ogni lato. Giustizia non era solo sociale. Comprendeva diritti che proprio in tempi di disagio la persona possa accampare. Che siano fondamentali: irrinunciabili come i primi 12 articoli della Costituzione. In fondo non basta chiamarli diritti: meglio parlare di autodeterminazione del cittadino, come dei popoli. Gli inglesi usano il termine empowerment: padronanza di sé. Nata da un accordo fra Pd e Sel, la Carta d'intenti di Italia Bene comune denunciava "i guasti del pericoloso bipolarismo etico" invalso per un ventennio.

I temi etici di cui tanto si parla da anni (la sovranità della persona sulla propria vita e la propria morte, la procreazione assistita, le unioni libere, i diritti delle coppie omosessuali, matrimonio e genitorialità compresi) sembravano ridefinire la sinistra, svegliarla. Erano presenti anche nei punti di Bersani (nr 2, 4, 7), quando il Pd fece credere, non credendoci, in un governo di svolta con 5 Stelle. Non era che fiato corto. D'un tratto, con le larghe intese, un patrimonio di progetti e idee evapora, come medusa si scioglie al sole. La pacificazione rende inoffensivo il bipolarismo etico, congelando l'etica. La guerra civile e ideologica italiana, assicura Berlusconi, è finita.

Senza che il Pd lo ammetta finisce tuttavia con un appeasement, non con grandi coalizioni. Storicamente
appeasement è sottomissione: vince uno dei due contendenti - la destra legata agli integralismi della Chiesa - senza neanche speciali combattimenti. Finiscono nel cestino l'autodeterminazione, la costituzionalizzazione della persona descritte da Stefano Rodotà. La sinistra governante non è più sinistra. Vende l'anima, tradisce promesse fatte non ieri, ma qualche ora prima. Nel discorso di Enrico Letta alla Camera: non un accenno ai temi etici, all'esausta cultura della legalità e del diritto, all'antimafia. La questione morale posta da Berlinguer dopo il compromesso storico è sotterrata. Dal naufragio si salva la lotta alla violenza contro le donne: è il minimo sindacale. Tutto il resto è roba ustionante: "troppo divisiva".

Si dimentica facilmente che democrazia è il contrario di tutto questo: è divisione, scontro tra visioni del mondo, rifiuto di un regno della Necessità cui soccombano le libere alternative. È possibilità e obbligo di occuparsi delle questioni più controverse, senza paura: non avremmo mai avuto il suffragio universale, se avesse prevalso il timore di dividersi. Ce lo ordina la nostra Carta, che riconosce alla persona diritti spesso contraddittori e si cura di farli convivere. La Costituzione, disse Piero Calamandrei nel 1955, non fotografa le conquiste della Resistenza ma è un programma inconcluso. Per questo è polemica: contro il passato, nella parte dei diritti fondamentali, ma soprattutto contro il presente: "Dà un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l'ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione mette a disposizione dei cittadini italiani" (Discorso sulla Costituzione, Società di studi politici del Liceo classico Sannazzaro, 2011). Che facciamo: tumuliamo la Carta costituzionale perché divisiva?

I fautori odierni della pacificazione sanno quello che dicono e che fanno. Assieme ai temi etici, seppelliscono ogni progresso sulla laicità, obbediscono ai vertici ecclesiastici proprio quando la Chiesa muta, tergiversano su antimafia o diritto alla cittadinanza degli immigrati proprio quando il diritto del suolo s'espande nella multietnica Europa (il ministro Cécile Kyenge sa, immagino, con chi governa). Resuscitano rigidezze democristiane che non risuonano più nella società, né in tanti cattolici adulti, memori del Concilio e di dismesse battaglie legalitarie. I cittadini non avevano chiesto questo: non gli elettori di Italia Bene Comune o di M5S, non gli 11,5 milioni di astenuti. Pacificazione è sinonimo di oligarchica colonizzazione di un popolo in maggioranza ribelle, simile a quella di Roma conquistatrice dei Britanni in Tacito: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, là dove fanno il deserto lo chiamano pace.

Tacito non parla propriamente di deserto ma di genti ridotte alla solitudine. Tale è il cittadino, disoccupato o immiserito: i suicidi l'attestano. Nessuno più lo rappresenta nel rapporto con i mercati, lo Stato, le chiese, le mafie: né i partiti né i sindacati. Ogni giorno sentiamo tuonare contro 5 Stelle che vorrebbero insediare la democrazia diretta sopprimendo quella rappresentativa. Ma di quest'ultima non è che resti un granché.

La solitudine del cittadino è il danno collaterale della crisi, e non stupisce che altrove i democratici ripartano proprio da qui. Mancano i soldi per dare lavoro, e allora la sinistra si distingue facendosi araldo dei diritti della persona: le aperture di Obama e Hollande alle coppie gay non sono diversivi. Sono il permanente empowerment che secondo Amartya Sen coniuga democrazia e mercato, e dà alla persona la sovranità almeno sul proprio corpo.

Troppo disinvoltamente cruento è il continuo appello ai sacrifici: parola che specie i cristiani dovrebbero avversare. Il cittadino immerso nel disagio non è bestia da immolare, e i diritti civili servono precisamente a questo: a farlo sentire padrone di sé, malgrado la pressura. La laicità, Rodotà lo spiega nel suo ultimo libro, non è solo tutela della res publica e della sua pluralità dalle ingerenze vaticane. È autonomia del singolo - in scelte che riguardano i suoi stili di vita, dunque anche di morire - da qualsiasi morale esterna: della Chiesa, del potere statale, di quello medico (Il diritto di avere diritti, Laterza 2012). L'uomo solo non è per forza impotente; e l'impotente - diceva Havel durante il comunismo - ha poteri che non sospetta. Berlusconi, dominus e beneficiario dell'odierno appeasement, non dice solo che la guerra è finita, inclusa quella morale. Dice che le decisioni cruciali concernenti le istituzioni, la Costituzione, i diritti, andrebbero discusse, se possibile sotto la sua guida, "nel chiuso di una stanza. Non possiamo tollerare veti alla mia persona imposti dai giornali".

Ben altro sarebbe intollerabile: che giornali e Rete accettino veti di occulti conciliaboli. Che la democrazia smetta d'essere polemica: all'aperto, non in una stanza. È sperabile che i giornalisti continuino le loro inchieste, difendendo la laica separatezza del Quarto Potere. Che denuncino la nomina del deputato Pdl Michaela Biancofiore, disgustata dai matrimoni gay, a sottosegretario alle Pari Opportunità: strafottenze simili le correggi, ma restano. O la scelta come rappresentante nell'Assemblea parlamentare Euromediterranea di Antonio D'Alì (Pdl), imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. O la carica di sottosegretario alla Pubblica amministrazione conferita a Gianfranco Micciché ("grazie a Berlusconi e Dell'Utri", ha detto al Corriere). Sono gesti che spiegano i silenzi sui diritti. 

C'è chi dice: moriremo democristiani. Non credo. Andreotti collaborò con la mafia, e a tutti insegnò il potere per il potere. Ma si difese nei processi, non li schivò. Non così Berlusconi, che spregia laicità e diritti ma della Dc è falso erede. Che ha abituato gli italiani a temere i tribunali, a disperare della giustizia. Difficile dimenticare le parole di Enrico Letta, il 30 novembre 2009 sul Corriere, quando definì inopportuna ma legittima la fuga di Berlusconi dai processi. La politica oggi ha poco a vedere con la Dc, e molto con la perdita di potere sovrano dei cittadini. Vale assai più per loro che per i governanti il detto di Andreotti: "Il potere logora chi non ce l'ha".